Un ritratto di Marco Ciriello su Andrea Pazienza che il 23 maggio avrebbe compiuto sessant’anni
Chi ha visto una tavola di Andrea Pazienza sa che non è facile raccontare di lui. Dovrei improvvisare una ballata invece di un ritratto: asfalto viola, raga curvi, paglie storte e lunghe facce velate dal nero barba adolescente tipo chiazza speriamo che cresca, arruffate basette, donne nude, cani, città e cieli che si dilatano: crescono e muoiono nelle sue mani, ironia e morte, eros e giochi di parole, cambi di lingua e stile che sembrano salti d’epoca, fuochi d’artificio, rapidi passaggi da dramma a commedia. Ecco qualcosa del genere, da leggere d’un fiato, da mandare giù senza domandarsi perché; ma poi bisognerebbe anche aggiungere e spiegare a chi non sa nulla di Andrea Pazienza che dietro c’era Bologna77, buia scura, con la pioggia che scroscia e le donne da cercare,c’era Bologna ideologia e rivolta, due modi di pensare, c’era Bologna che cresceva e lui che andava per altra strada, si sdoppiava, rideva e s’incupiva, soffriva con Pentothal a Napoli passando dallo spazio come extraterrestre, solo che era un ragazzo, uno come tanti: e la sua rabbia erano tavole enormi, uniche, un solo grande miscuglio d’umori e parole, e bastava poco per raccontare quei giorni e una donna, un incontro solo e una stanza in penombra, e capivi uguale, il disagio e la brevità della storia, lì ancora il tratto esitava, ma poi come un Tardelliottantadue sudato ma con più classe, ha preso a correre, con meno disincanto e più amarezza, certo, ma non lo prendevi mica, potevi ammirarlo e anche non capirlo, tipo uno che parla dei cazzi suoi fra Marlboro e libanese stando sul cofano di una auto ad aspettare che passi la notte come se fosse l’ultima, la veglia punk del proprio avvenire, un funerale di speranze che cadevano, e il senso forse arrivava nell’ultima finestra o in una parola sola e si poteva trattare di una parolaccia, una bestemmia o anche non esserci.
Potevi odiarlo o amarlo alla follia al punto di provare invidia per un ragazzino che troverà un suo albo oggi, e per lui sarà nuovo, e allora rimetterà in moto lo spettacolo complesso d’emozioni: tratti giusti, frasi che sconcertano e tirano giù sorrisi e anche ti lasciano partire: «quanto si divertirà questo qui?…e lo pagano pure», e lui risponderebbe: «non sai che miseria», e poi, altra pagina, di seguito: «e allora è un mago, e perché non lo dicono nelle didascalie invece di metterci Placido che parla di Goethe e Schubert?», metteteci una scritta come su un muro: PAZ è il Joyce dei fumetti, stop, e di seguito se la pagina tiene e lo spazio c’è: questo qui è “Arancia meccanica”, Charles Bukowski, Rembrandt e gli Skiantos, Frank Zappa, Canaletto, e nemmeno basta, “Ultimo tango a Parigi”, Caravaggio ubriaco, radio alice e l’illusione, è «lasciatemi fare che so sbagliare», Keith Richards e Sid Vicious, «indietro non ci torno se non per prendere la rincorsa», ma «anche amore è tutto quello che si può ancora tradire», è la pigrizia e la rabbia, enorme, tanta, frenesia che diventa tratto e sintetizza tutto, non lascia perdere niente. Solo che lo capisci dopo, e solo dopo ti accorgi che lui in un salto da una striscia all’altra aveva un occhio che nemmeno un grande romanziere o un inviato di guerra, è la carpa Nan Ch’ai di cui parla Stefano Benni in un racconto che «è di una bellezza superiore alle parole», oppure no, niente, solo Pier Vittorio Tondelli che spiega, ed è una sola frase, o l’elenco di quelli che c’hanno provato a raccontarlo e allora anche Oreste del Buono e Vincenzo Mollica, ma mica facile, anche io ci sto girando intorno, con la paura che un suo piezzemme’ mi raggiunga mentre scrivo, o che arrivi Zanardi a picchiarmi, e allora dovrei dirglielo: «vai, vai a dire a Quentin Tarantino che tu esisti prima di lui», e dopo «allanemaechitemmuort’ e chiccazz’è tarantino?!» m’ascolterebbe pure, e allora diglielo che Paz l’ha fatto prima “Pulp fiction”, solo che c’era più fondo e meno voglia di strafare, e le sere non finivano con i titoli di coda ma in auto al freddo, sperando che ci fosse ancora del fumo con l’illusione che dalla strada emergesse sul serio una donna felliniana, una sirena o la sorella del tuo migliore amico che «a quest’ora mi va bene pure lei», e le lame erano apribottiglie per peroni calde, e gli stupri erano per riempire il vuoto ingombrante dell’adolescenza, oppure per svuotarsi dal peso del futuro, ma era “solo” un fumetto, una “Sturiellet”, e lì la vita è una canzone che ti sembra di conoscere, e allora canti a squarciagola, ti ci tuffi e non ci pensi. Pazze pagine intermittenti, mute o con troppe troppe parole, eroi tristi, risate a crepapelle o anche storie tipo: ma dio l’ha mai fatto? Certo. E poi guardandoti intorno non sapevi se quella sera compariva il cielo del Brasile, o se c’era “Astarte” un cane nero con la voglia di raccontare, se capitavi in piena battaglia medioevale, nel vecchio west, in un campeggio sul Gargano oppure in periferianni80, comunque c’era qualcosa da fare, da inventarsi per poter dare un senso all’improvvisa voragine temporale, di certo c’era lo stupore, perché tutto dipendeva da Paperenza, e che avesse o meno voglia di colorare e perderci le ore, che avesse o meno tempo o solo un desiderio assurdo di fermare l’attimo felice che passa per poi guardare la tavola soddisfatto con l’illusione di esserci riuscito, Ardenza tirava sempre fuori qualcosa che valeva la pena di guardare. E diglielo a Tarantino che quando lui se ne stava ancora a sbavare dietro “Milano odia: la polizia non può sparare”, SuperPazienza già c’era e disegnava, dipingeva e stupiva, metteva in pagina le emozioni e lo sbalordimento di una generazione; e sì, che la mappa era buona anche per le altre a venire, perché il burrone è sempre quello e il capitombolo pure, e se i classici sono narrazioni che non smettono di dire, allora lui è anche un classico, oltre al resto, nel senso che il suo mondo è nostro anche se lui non c’è più da una sera di giugno88, morte per droga, e allora? È un salto dove è più fondo, nel nero della pagina, come sipario, mica sempre a colori, anche pozzi di nero c’erano, e tanti, e magari era solo un sogno che s’è perso, cose tipo faccio un salto di là a cercare il segno. Senza parole. Saranno stati contenti quelli che scrivevano a Comic Art perché indignati dalla violenza, dal linguaggio, dalle donne nude, dal machismo misura palestra, ma lui c’era abituato fin da Alter Alter, e se li portava a spasso fra le nuvole, lui che non aveva niente da dire forse perché diceva troppo. Saranno gli stessi che dopo hanno capito, oppure sono quelli che poi passano a scrivere ai quotidiani cose tipo: esiste dio? E allora rileggi, riguardalo Pippo strafatto o perditi con Pompeo, e ridi, cazzo, ti sarà capitata una sera del genere, ti sarai mai manco immaginato così? Sarai stato lontano da te almeno un pomeriggio. Che poi la distanza è un dito solo, e basta stenderlo, e allora zac, arrivederci amore, ciao spazi, lontananze, misure, sfumi una parte, svisi una faccia con una linea, e dici la verità dall’altra, ma il difficile è riempire il vuoto con il mondo che ti sta intorno e se non hai poesia da vendere mica ci riesci, che poi non è che la poesia non faccia a meno delle parolacce o della droga, ma faglielo capire a quelli che scrivono lettere ai giornali. Per questo lui non disegnava solo, lui stava costruendo una cattedrale da perdersi, tipo Gaudì, qualcosa che scavalchi gli anni avvenire, pura avanguardia, e si divertiva: allegro, vivace, stralunato dissipatore d’arte, d’amicizia e tenerezza. E per capirlo bisogna passare fino in fondo a certe sere spente, che manco un corridoio buio o un carcere basta a esempio; bisogna desiderare di incendiare il mondo o solo avere un Caronte dentro che ti passa da parte a parte il cuore e raggiunge il rancore che balla in petto; bisogna avere un padre da odiare e una casa da lasciare, poi magari ci torni e mandi tutto a cagare, ma prima te ne devi andare, perché «forse la giovinezza è solo questo perenne amare i sensi e non pentirsi», e lui non s’è lasciato niente dietro, tolta l’arte, s’è avviato in direzione opposta, contraria al resto, e non ha più smesso. Eh, Paz?