Capita, o è capitato a molti, di eccedere senza pentimento, con la speranza annebbiata di poter regolare la faccenda il giorno dopo, nell’incertezza di giaciglio. Nel mezzo c’è sempre una notte oscura. Pensiamo a quelle feste eleganti sul finire, al limite pure ai matrimoni degli altri, ancora meglio se sconosciuti, dai quali si torna con un certo senso di disfacimento e con indecorose macchie sul vestito buono. Una saletta a parte, l’amico che propone candidi piaceri polverosi, poi un cognac, due tre quattro dieci, quindi la perdizione, tra stucchi e broccati di ville in affitto, tra i colori – i celesti, i viola, i neri ed i rosa – delle vesti delle femmine che si confondono, gambe e tacchi alti, con l’occhio che scende invece di salire, fino alla poltrona sulla quale si raccoglieranno a fatica le forze per tornare a casa, impossibilitati a sedurre come a reggersi in piedi: “mi chiami un tassì!”, mentre tutt’attorno il giubilo chiassoso si trasforma di colpo in sottinteso complotto al quale intimare: “gente di merda!”. L’ebbrezza è infatti propedeutica a retroscena postumi paranoici, al maestoso ritiro nei propri appartamenti, facendo del proprio caso disperato teatro privato, apologia dell’incomprensione con il resto del mondo. Passi sordi nella ghiaia del vialetto, le chiavi di casa finite nel tombino o nella tasca bucata, le ipotesi di addiaccio. Amnesie, resta l’ultima sigaretta. Ecco appunto, in queste circostanze saranno utili per aggravare la situazione – nella convinzione che solo ulteriore veleno possa farsi farmaco – alcuni dischi, essenziali per concludere la notte giungendo all’alba ancora in cravatta.
- Nick Cave and the Bad Seeds, Tender Prey
Quinto album dell’australiano, uscito nel 1988, conserva rumorosi barcollamenti punk da “festa di compleanno” finita in malora, frammisti a indolenze romantiche di un confidente disilluso ma non domo. Disco dove il delirio giovanile di Cave, inizia ad ibridarsi con stilose mollezze cantautorali, gettando le asperità esistenziali in un vortice di violenza e misericordia. C’è la bibbia, dietro il sipario dei semi maligni, c’è quel Dio crudele e vendicativo già trattato poeticamente da William Blake, e in musica da Jonny Cash e Leonard Cohen. Tre fantasmi ispiratori, invitati a pregare al contrario nel crudo scenario da B-movie allestito da “Re inchiostro”, nel cabaret noir tra sigarette e alcol, per un’opzione qualsiasi da meritare: paradiso, purgatorio o inferno. Ogni brano è qui un capolavoro, ci limiteremo a sottolineare le seducenti The mercy seat, Deanna e New morning, ottime per prolungare agonie e postumi di varia natura.
- Tindersticks, Curtains
Terzo disco per la band di Nottingham, risalente al 1997. Ci piace inserirlo anche perché, dopo le morbose attenzioni riservate dalla stampa britannica – sempre in cerca di fenomeni modaioli – ai due osannati dischi precedenti, Curtains rappresentò per i Tindersticks il primo passo verso la salvifica fuoriuscita dal luccicante mainstream brit-pop. Episodio barocco, decadente con abatjour fioca all’ultimo piano, raffinato ai limiti della stucchevolezza, l’album si caratterizza per lo sbiascicato timbro baritonale del cantante Stuart Staples, nonché per le torbide sonorità jazz. L’orchestrale opulenza degli arrangiamenti ne fa un musical cagionevole, da bistrot per maledetti fuori tempo massimo. In copertina un tessuto di rose, a sottolineare il forte estetismo del progetto, quel romanticismo dagli intenti fallimentari e con esiti autocompiaciuti, da sempre cifra stilistica della band. Donne che s’invitano a ballare, plausibili rifiuti, notti solitarie e nebbiose, bagni dove consumare piaceri clandestini, camere sfatte, tutto perfettamente inattuale e ben sintetizzato dal brano Rented rooms.
- The Smiths – The queen is dead
Certo, avremmo potuto tirare a caso nella discografia dei mancuniani, pure la raccolta di b-side sarebbe risultata pertinente, data l’alta qualità, pressoché uniforme, di musiche e testi. La scelta cade sulla seminale uscita del 1986 per ovvie ragioni, titolate così: There Is a Light That Never Goes Out, The Boy with the Thorn in His Side, Some Girls Are Bigger Than Others. Qui c’è tutta l’essenza poetica di Morrissey, tra suggestioni vittoriane – il fantasma di Oscar Wilde è nume tutelare, assieme all’estetica cinematografica anni ’50 – pruriti tardo-adolescenziali, mattoni rossi e ciminiere sullo sfondo. C’è dentro tedio snobistico, ma pure indifferenza affettiva, faccende amorose portate alle estreme conseguenze, cinica arroganza tutta britannica e consolatorio manuale di formazione per timorosi reclusi in camera. Là fuori il mondo è uno schifo, l’anonimato proletario ci salverà, in attesa che la ghigliottina faccia il suo mestiere. The Queen is dead è al contempo un classico, assai osannato, e un intimo ricordo privato per ogni sincero ammiratore degli Smiths. Sempre uguale e sempre diverso, per chi l’ha ascoltato, confonde i ricordi trasfigurandoli. Assai utile per l’orgoglio frustrato degli sconfitti, in qualsiasi circostanza.
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- Anna Calvi, Anna Calvi
L’esordio omonimo della cantautrice britannica, datato 2011, porta alla ribalta una meraviglia assoluta, con un cognome che, solo accidentalmente, richiama il londinese ponte dei Frati neri ed un cappio penzolante nella bruma. Certo, da subito c’è Lei, chitarra a tracolla da martoriare violentemente, bellezza femminile intrigante, classica e tuttavia sottilmente inquietante: Pantaloni a sigaretta neri, tacchi a spillo, chignon con capelli tirati all’indietro, occhi azzurri, rossetto scarlatto e una voce che t’ammazza. Anni Calvi, con make-up espressionista, che ne sottolinea l’androginia, è un incanto dal carattere marcato, non una bambolina sculettante per i video di MTV. Black out, Desire e The devil, fra le tracce in scaletta, intrecciano abilmente blues, rock e decadentismo, testimoniando le caratteristiche di una vocalità estremamente versatile, in grado di passare senza sforzo dai toni bassi e tenebrosi, a soavità quasi eteree. Qui lo stile, lunare con influenze iberiche e parigine, s’adagia nella seduzione femminile più raffinata e perversa, nella sfuggevolezza di occhiate complici ed inevitabilmente illusorie.
- Burial, Untrue
Gli esperti informano trattarsi di dubstep, non metteremo in dubbio l’etichetta in questa sede. Il disco, uscito nel 2007, è certamente un capolavoro dell’elettronica anglosassone moderna: profondo, cupo, urbano, notturno, piovoso, dilatato eppure claustrofobico. Suggestioni da tangenziale metropolitana prima dell’alba, con le luci delle autovetture che creano giochi abbaglianti sulle pozze d’acqua, neon intermittenti in periferia, spazzatura ammassata ai lati, sottopassi, anfratti umidi e pericolosi, riverbero di passi in lontananza. Grumi e dissolvenze, container e graffiti. Come altri musicisti restii ai riflettori, Burial è stato per anni un caso misterioso, visto che se ne ignorava l’identità e la ragione sociale rimandava direttamente al camposanto. Untrue si abissa nell’inconscio, con un gioco ad incastri tra frequenze ultra-basse, samples ripetitivi, torbidi fruscii, slittamenti gommosi e vuoti carichi di ansia. Musica plumbea e drogata, elegante nella sua deriva verso un sottosuolo fognario inesplorato. Da segnalare: Dog shelter.
- Arab strap, Philophobia
Verrebbe da dire: ‘fanculo. Perché la compagine scozzese, fautrice di un indie-rock ipnotico e trasandato, suggerisce che non vi siano molte alternative al pub. O meglio: ai cessi del pub. Testi crudi ai limiti – sovente varcati – della volgarità, musica messa in piedi con quel poco di do it yourself raccattato nell’usato: drum machine, chitarra e basso, per una strampalata alternanza di ballate deprimenti e furiose impennate in direzione rumore bianco. Aidan Moffat, il cantante dalla pronuncia intraducibile, pare un boscaiolo alcolizzato (probabilmente lo è, nel molto tempo libero), tanto che piacerebbe immaginarlo in fase di presentazioni con l’Anna Calvi di cui sopra, l’esatto contrario al femminile. Il secondo disco degli Arab Strap, uscito nel 1998 in piena eco Trainspotting, è quello dove l’attitudine naif al no-future si mescola perfettamente con lo scazzo di giornate nuvolose, passate in qualche bettola ad ubriacarsi o a calarsi dei trip. Su tutte le canzoni, spicca il maldestro romanticismo feriale di (Afternoon) Soaps.
- Suede, Dog man star
Nel 1994 erano attesi al varco del secondo disco, gli Suede. Dopo gli ambigui ammiccamenti glam dell’esordio, che li consacrarono alla popolarità planetaria come eredi legittimi di David Bowie, Bryan Ferry e Marc Bolan, i pallidi ed emaciati neo-decadentisti, capitanati dall’efebico Brett Anderson, confezionarono un album forse meno scintillante, ma certamente destinato ad invecchiare meglio. Pop di fiori appassiti, carta da parati scollata e soluzioni anfetaminiche disturbanti, sotto la vernice a presa rapida di orecchiabili canzonette, con Dog man star l’astro degli Suede si fece manifesto strappato – alla Mimmo Rotella, per intenderci – di un film europeo, di un’anteprima eclissata in ricordi dolciastri. Occorre giungere alla fine del disco per assaporarne il meglio, nella camomilla avvelenata di Still life. L’epilogo, un teatrale melò in crescendo d’enfasi, ha la forza gigionesca di My way (Frank Sinatra), tuttavia velata da un opaco presentimento di foglie secche e sole al tramonto. Vinse il grunge infatti. Alla fine, comunque, scroscianti e commossi applausi.
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- Coil, Music to play in the dark, vol. 1 e 2
Con i Coil si entra nell’oscuro reame dello sperimentalismo elettronico, di matrice industriale ed esoterica. Un duo, coppia anche nella vita privata, John Balance e Peter Christopherson – entrambi scomparsi da pochi anni – seppero declinare le tendenze avanguardiste post-punk in una formula originale, talvolta accessibile anche all’ascoltatore profano. Questo è il caso, ad esempio, delle pubblicazioni gemelle dedicate alla “musica da suonare nell’oscurità” uscite rispettivamente negli anni 1999 e 2000. Trattasi di viaggio elucubrante, di un’escursione nello spazio siderale desolato, organizzata in lunghe suite destrutturate o in architetture di cristalli sonici avvolgenti, giustappunto “a spirale”. The dreamer is still asleep, Batwings, Paranoid inlay, Where are you? – questi i titoli da segnalare – riescono ad intersecare gotici languori con i meccanismi pulsanti del suono sintetico futuribile. L’astronave Coil, diretta verso l’ignoto, imploderà facendosi buco nero e vacuità cosmica, in questo alimentando pertinenti consonanze con l’immaginario kubrickiano di 2001: Odissea nello spazio.
- Le Masque, Dal diario di un soffiatore di vetro
Ensemble milanese, fortemente influenzato dalla scapigliatura, dal canzoniere francese e da un certo dandismo anacronistico – tanto da citare Pierre Drieu La Rochelle nel libretto di un disco – i Le Masque prendono nome da un poema di Baudelaire contenuto ne Les fleurs du mal. Data la frastagliata discografia, poi evoluta verso un cantautorato intimista ed elegantemente nostalgico, si opta per questa raccolta uscita nel 1998, con in copertina un melanconico incontro tra uomo e donna, mascherati per carnevale nel bianco e nero di un’epoca sparita per sempre, come bolla di sapone. Con Le Masque si rischia seriamente di prorogare all’infinito l’assenteismo mondano, posticipando ogni faccenda in favore di un atarassico abbandono retrò. I giorni dei balocchi, calzoni corti e paltò, i primi rossori, poi fatalmente le donne, qui meravigliosamente stilizzate rammentando Modigliani. Già dal tetro poema musicato Colloquio (tatto da un testo del 1907 di Carlo Vallini), si comprende la cifra stilistica elitaria del gruppo, rimarcata poi dal disincanto leopardiano de Il giorno del ripostiglio e dalle tribolazioni gozzaniane di Le terre di Monlué: “…tu che cerchi le vetrine del centro, tu che cerchi i bar d’atmosfera, tu che cerchi i sabati sera e le fatiche degli amici iscritti a tutto”. Per pochi.
- Colloquio, L’entrata – L’uscita
Si conclude il decalogo per nottambuli, evasi dalle feste, con il duo elettronico/cantautorale modenese, che proprio dai Le Masque già citati prende nome. Colloquio, ovvero Gianni Pedretti e Sergio Calzoni, giunge a piena maturazione con il disco L’entrata – L’uscita, del 2013. Copertina esaustiva dei contenuti, in bianco e nero modernista anni ‘60, con elegante signore intento ad accennare un brano, affiancato dal muto grammofono, mentre sul retro una porta chiusa rammenta al visitatore che colloquio non è sinonimo di chiacchiericcio e forse nemmeno di dialogo. La traccia Pareti, apice dell’albo assieme alla title-track e a Meglio così, si sviluppa miscelando alla perfezione rotonde pulsazioni elettroniche, deragliamenti rumoristici, ariose dilatazioni cinematografiche morriconiane, voce filtrata dal tabacco e sabotata da un costruttivismo robotico sul punto di collassare, come se le macchine avessero trovato una folle emancipazione dal pilota. L’equilibrio compiuto tra poetica – sovente introspettiva, in altri casi onirica – dei testi, con sonorità classiche (sax, contrabbasso, flauto, batteria jazzata) e glaciali soluzioni “spaziali” post-industriali, crea un’ipotesi sperimentale di canzone d’autore italiana, assolutamente inedita e di grande fascino.
@barbadilloit