La crescita di Podemos in Spagna ha scatenato un dibattito fra gli analisti che, come sempre in ritardo, hanno preso atto della crescita di un movimento antieuropeista e popolare dopo le sue vittorie elettorali. La crescita del partito che prende le mosse dal movimento degli “indignados” però era già stata ventilata nel volume “All’armi siam Leghisti” (Aliberti Wingsbert House, pp. 237, euro 16) di Antonio Rapisarda, dove – a partire dal ciclone Salvini – vengono analizzati i movimenti populisti “di destra” e “di sinistra”, come Podemos, anche se difficilmente possono essere incasellati nelle vecchie categorie. Rapisarda fa notare che il linguaggio della nuova sinistra spagnola sotto certi aspetti non è certo differente da quello ad esempio di Marine Le Pen. I primi parlano della lotta del 99% contro l’1%, la seconda del conflitto fra l’alto verso il basso. Due metafore fra loro molto simili.
Di seguito riportiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto del paragrafo “Populisti si, ma come?” nel quale vengono analizzati alcuni aspetti inconsueti del populismo. (F.F)
Lo sostiene Slavoj Zizek in Difesa delle cause perse: «Ciò che i nuovi populisti di destra e di sinistra condividono è una cosa sola: la consapevolezza che la politica vera e propria è ancora viva». Ha ragione il guru della nuova filosofia, nel senso che solo i populisti tengono politicamente l’Europa di Bruxelles, quella cosiddetta legale, con il fiato sospeso.
Zizek annotava ciò in un momento in cui Francia e Olanda il fenomeno dei movimenti populisti “di destra” appariva politicamente ancora una minaccia più che una realtà, seppure capace già di bloccare la costituzione europea con i referendum.
A distanza di qualche anno la minaccia è diventata opzione concreta, tant’è che in seno al Parlamento europeo si è dovuto ricorrere alle larghe intese per formare un governo diverso da quello licenziato dall’Europa reale, ossia un continente sempre più inquieto rispetto l’architettura e l’impianto voluti da Bruxelles. Il problema però, per la sinistra europea, è quello di dare poco ascolto a uno dei suoi maître à penser: gran parte della sinistra-sinistra in Europa, infatti, rifugge la categoria del populismo e non riesce a trovare un approccio unitario ai temi dell’ Ue , dell’euro e della sovranità. Segnali di vita, in questo senso, arrivano quasi esclusivamente, e con tutte le differenze di approccio e di cultura politica, dalla riva destra del populismo: quella del nazional-populismo, per utilizzare la categoria di Taguieff. Anche qui, però, non si tratta di un gruppo omogeneo, come dimostra la mancata cordata in seno all’Europarlamento con Nigel Farage e il suo Ukip che hanno preferito formare un gruppo a parte lasciando il Front National, la Lega Nord e gli altri movimenti identitari nell’impossibilità – nonostante il boom elettorale – di formare fin dall’inizio un altro gruppo eurocritico.
A sinistra è Podemos – il movimento della sinistra radicale spagnolo di impronta “grillina” – che, a conti fatti, non disdegna una certa venatura populista. Lo spiega apertamente il leader Pablo Iglesias: «A me non interessa l’unità della sinistra, ma quella popolare, del 99 per cento contro l’1». In questo slogan, ad esempio, ritorna il “basso contro l’alto” teorizzato da Marine Le Pen e non è un caso che il movimento spagnolo in tutti i sondaggi sia dato in crescita rispetto ai popolari e ai socialisti. Spiegano ancora gli europarlamentari di Podemos: «Gli antisistema sono Psoe e Pp , perché loro stanno distruggendo la scuola e la sanità pubblica, loro deturpano l’ambiente e privano i cittadini dei loro diritti e di un futuro. Non certo noi».
Un calco, anche qui, di ciò che il Fn sostiene in Francia quanto denuncia le malefatte dell’Umps , ossia dell’alleanza di fatto tra socialisti e Ump . Teorie che Tsipras, il comunista greco che ha vinto le elezioni Politiche in Grecia con Syriza e utilizzato come brand dalla sinistra italiana alle elezioni Europee, sposa in parte (Marine Le Pen stessa ha “tifato” per la sua vittoria in chiave di promozione trasversale delle forze eurocritiche salvo poi verificare subito lo sgonfiamento del fenomeno) ma che – nel caso spagnolo come in quello greco – non arrivano a mettere in discussione la moneta unica, preferendo richiamarsi a una nebulosa necessità di una riforma delle istituzioni europee che, a conti fatti, non spaventa i vertici Ue.
Tutto questo ha attirato gli strali di alcuni analisti eterodossi di sinistra. Come Diego Fusaro – filosofo neomarxista e agit prop culturale – che a proposito della vittoria di Alexis
Tsipras in Grecia non si è unito al coro dei fan italiani: «La sinistra che sta con l’euro; la sinistra che sta col capitale e con i padroni; la sinistra che ha tradito Marx e i lavoratori.
Con una sinistra così, non vi è più bisogno della destra. È la sinistra che vuole abbattere l’austerità mantenendo l’euro: cioè abbattere l’effetto lasciando la causa, ciò che è impossibile “per la contradizion che nol consente”». Esiste, allora, oggi un soggetto collettivo, una base sociale del populismo che in qualche modo scavalca i confini geografici e quelli politici in Europa? Sì, ed il prodotto, da una parte, di una profonda crisi sociale, dall’altra parte di un fallimento totale della politica per cui in qualche modo la prepotenza della “casta” fornisce collante ideologico. Il modello, anche qui, viene Oltralpe. Caratteristica principale è quella scovata da Lanfranco Pace: «Fra un Hollande che vuole la regola d’oro in Costituzione – si legge su «Il Foglio» – e i capi della destra di cui non si sa bene cosa vogliano, Marine Le Pen dice che bisogna recuperare la sovranità nazionale, uscire da questa islamizzazione galoppante della Francia, diminuire drasticamente le tasse e con esse il ruolo, l’influenza dello Stato.
È un populismo, il suo, senza decrescita felice, senza feticismo delle tecnologie, senza millenarismi: si presenta come una sfida forse azzardata, ma alla portata di una generazione». Feticismo per le tecnologie, millenarismo: il riferimento, nemmeno troppo velato e indiretto, è l’evoluzione del fenomeno populista in Italia. All’alba della Terza Repubblica, infatti, quello spazio vitale – fino a quel momento blindato dalla figura ingombrante di Silvio Berlusconi – viene occupato da Beppe Grillo.
Un populismo di matrice tipicamente anti-partitocratica, dai tratti destrorsi ma con una capacità di presentarsi come novità e come visione (una forma di democrazia diretta per mezzo digitale) e quindi a piacere a una certa élite di sinistra, che riesce nel giro di poco tempo a catalizzare su di sé l’attenzione e a sfruttare tutti gli assist forniti dalla classe dirigente politica fino a raggiungere il 25% delle preferenze alle elezioni Politiche. Dopo il boom per i grillini arriva però il momento delle decisioni in Aula sui dossier che costringeranno il Movimento a definirsi. E al di là degli isterismi legati alle attenzioni monomaniacali dei pentastellati per la “trasparenza” (la cui ortodossia ha scatenato le faide per gli scontrini alla buvette della Camera) è l’Europa – e con questa i temi dell’immigrazione, della sovranità, della moneta – la questione che mette in crisi la classe dirigente con il leader e il leader con una parte dell’elettorato.
Sul reato di clandestinità, ad esempio, si è consumata una di quelle fratture che hanno determinato l’emersione di una frattura tra Beppe Grillo, realista e critico dell’immigrazionismo, e la componente più ideologizzata del Movimento, vicina alle posizione della sinistra radicale sull’argomento accoglienza. A un certo punto, come abbiamo visto, proprio rispetto all’ Ue e alle sue politiche si innesta una corrente inedita, guidata da Matteo Salvini. Una corrente che cavalca tutti i temi dell’euroscetticismo: sia quelli storici che quelli dettati dall’impostazione conservatrice e dirigista voluta da Angela Merkel. Una corrente in cui affluisce la destra non conforme. Marco Tarchi – politologo tra i massimi esperti in Italia di populismo, ma anche profondo conoscitore del mondo della destra “differente” perché da giovane è stato animatore della corrente più innovatrice del Fronte della Gioventù fino all’espulsione dal Msi a causa di una vignetta satirica contro l’allora classe dirigente pubblicata su «La voce della fogna» – tende a valutare così due fenomeni: «Non parliamo di LegaPound – spiega al «Foglio» –. Il leghismo appartiene al filone populista, che con l’estrema destra ha alcune contiguità ma anche molti motivi differenziazione». Secondo Tarchi la miccia accesa non si rivolve solo nell’attacco all’identità, ma in una vera e propria aggressione al reddito, alle sicurezze sociali, all’impianto dello stato sociale: «Ormai in tutta Europa si sta affermando quello che è stato definito il “populismo patrimoniale”: una reazione alla crisi delle tradizionali classi politiche che mescola la difesa di uno stile di vita a quella di un livello di vita.
Sul primo versante il nemico è la (presunta) minaccia all’identità culturale legata ai comportamenti che l’immigrazione di massa, soprattutto dai paesi islamici, porterebbe con
sé». Accanto a questa «i nemici sono le politiche dell’Unione europea, l’euro, la finanza liquida e ingorda. Si può dissentire, eccome, da questa visione delle cose, ma i dati elettorali dimostrano che fa sempre più presa sulla pubblica opinione.
A questo punto, come insegna Marine Le Pen, a che giova inseguire le enclave moderate se le praterie dell’inquietudine e della protesta sono spalancate? Purché, certo, non si ecceda: se nell’elettorato l’immagine di Salvini coincidesse con quella di Borghezio, i consensi si restringerebbero».
Il politologo esprimeva questa considerazione nei primi mesi di “intesa” tra Lega e destra, evidenziando due filoni politici paralleli. Rispetto a questo Ugo Maria Tassinari aggiunge dell’altro. «È vero che Salvini parte da uno scenario europeo dove c’è una prateria aperta per una destra populista, identitaria, antimercantilista; che lui capisce che la sua possibilità di resuscitare la Lega è di infilarsi in quel filone che può di volta in volta essere anche antiwelfare come in Danimarca, libertario-libertino come in Olanda». Dopodiché, tra i tanti modelli che poteva prendere – inclusa l’Austria che fu di Haider – «lui sceglie la Francia. Perché è l’unico modello di un partito non solo populista, perché il Front nasce come partito di destra radicale che si evolve rispetto a un sistema bloccato e che sfonda a sinistra nelle banlieu sul conflitto con l’immigrazione. I primi che lo fanno decollare sono i piedi neri del Sud, ma anche la periferia parigina, dove c’era la cosiddetta cintura rossa operaia in cui l’operaio francese di sinistra si arrabbia e vota Front National.
Anche dal punto di vista economico e di rappresentanza degli interessi – come abbiamo visto – vi è qualcosa di più dell’istintualità anti-tasse. È un economista di scuola realista ma tutt’altro che ascrivibile a destra come Sergio Cesarotto a rivendicarlo: «Questi movimenti (populisti, NdA) hanno proposte ragionevoli che vengono frettolosamente liquidate. In primo luogo essi condividono le riserve circa l’esistenza stessa dell’euro espresse dalla parte forse maggioritaria dell’intellighenzia economica internazionale che lo ritiene incompatibile con la libertà dei paesi di perseguire politiche di piena occupazione, con la stabilità finanziaria (come s’è visto) e con la democrazia sociale e politica».
Insomma, se di populismo si tratta, come spiegano Tarchi, Tassinari e gli altri osservatori, questo si qualifica con le caratteristiche presenti nei partiti di massa e non come la ridotta della pancia della protesta. «Siamo in presenza di un’ondata di populismo di diversa qualità» afferma il sociologo Aldo Giannulli. Diversa rispetto all’ondata populista che aveva contraddistinto la fine dei due blocchi «che era funzionale al disegno del nuovo blocco sociale dominante – a trazione finanziaria – che postulava il totale ritiro dello Stato dall’economia, l’abbattimento del primato della politica».
Quei movimenti populisti «si raccoglievano intorno a finanzieri, politici borderline o più banali brassuer d’affaires come Timinski in Polonia, Ross Perot negli Usa, Collor de Mello in Brasile, Jordi Pujol in Spagna, Bernard Tapie in Francia o il nostro Silvio Berlusconi». Interessante capire il motivo della loro emersione in quel preciso momento storico: «Funzionale allo stemperamento delle identità» di molti soggetti politici, dai socialdemocratici fino ai conservatori. E oggi? Secondo Giannulli «in tempo di crisi siamo alla presenza di un populismo ribellista, antistema, antifinanziario non meno che antipolitico. Soprattutto l’ostilità si indirizza contro l’euro e, di conseguenza, l’Unione europea individuate (non a torto) come articolazioni di quel potere finanziario contro cui si insorge».
La domanda che lo studioso si fa è tutt’altro che retorica: «C’è da chiedersi se la costruzione europea reggerebbe, qualora uno dei partiti dovesse vincere le elezioni in uno dei maggiori paesi dell’Unione, per esempio la Francia». Se resta, in alcuni di questi soggetti, la sostanziale carenza di programmi politici e non sembra esserci all’orizzonte la costruzione di un’egemonia alternativa, ciò che è certo è che non è per nulla certo che si tratti di fenomeni passeggeri: «Può darsi che l’ondata passi, ma solo dopo aver portato il sistema al limite di rottura». Il 2017, che in Francia significa elezioni Presidenziali, è dietro l’angolo.