Capitan Lahm non diceva bugie, allora, quando assicurava di esser certo che il turno l’avrebbe passato il Bayern. I tedeschi di Pep Guardiola fanno cappotto al Porto del fantasma Quaresma ma la scena più bella del quarto di Champions in terra bavarese è nel finale quando – clamoroso all’Allianz Arena! – Tommy Muller imbraccia il megafono e diventa il capo degli ultrà.
Sull’incontro c’è poco da dire. In svantaggio dopo l’andata disputata in terra lusitana, il Bayern si ricorda di essere la prima forza del campionato tedesco (e forse d’Europa) e prende a pallonate i biancoblù portoghesi. Sei a uno, risultato finale. Roba che, in tutti i bar del regno del calcio balilla, ti costringerebbe a passare sotto al biliardino.
È il bello del calcio. Non sempre vincono i più forti. E infatti così era successo all’Estadio do Dragao quando il redivivo Quaresma aveva seminato il terrore nella difesa deutsch e il Porto aveva fissato il finale sul 3 a 1 a suo vantaggio. Non sempre vincono i più forti, dicevamo. Ma quando lo fanno, sanno farlo bene: sei pappine, cinque gol in ventisei minuti (l’ex Barça Thiago Alcantara, Boateng difensore, doppio Lewandonski, e Muller cui, a fine partita s’è unita la rete di Xabi Alonso). La sinfonia del pallone recitata dall’orchestra del maestro Guardiola. Jackson Martinez, spilungone colombiano, ha onorato la bandiera oportina segnando il gol dell’onore.
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Non si poteva chiedere di più alla truppa disciplinata, solida e scientifica di Monaco di Baviera. Il pubblico già in delirio, però, doveva aspettarsi un’altra sorpresina. C’è Tommy Muller, attaccante di talento, opportunismo, cinismo e senso del gol che qualcuno paragona al leggendario Gerd. Contemporaneamente uomo di squadra capace di macinare chilometri su chilometri. Ma Thomas è uomo di spirito e sanissima faccia tosta, che gli dei ce lo conservino, capace di fingere una caduta per “velare” la punizione e innescare lo schema nell’incontro mondiale della sua Germania contro l’Algeria. E, soprattutto, è impossibile non amarlo.
Dopo il triplice fischio finale, Muller s’è avvicinato alla curva. S’è impossessato di un megafono. Ha chiesto che gli lanciassero le lettere del suo nome, ha lanciato i cori, ripetuti dagli ultras, dagli spettatori, dai suoi stessi compagni di squadra. Una sola voce, mille e mille cuori che palpitano all’unisono. I tempi scanditi da un centravanti, campione del mondo e di tutto, che diventa simbolo di una vittoria che non è più di undici persone ma di un’intera comunità.
Con un gesto semplice e rivoluzionario, Muller ha riconciliato il calcio con la sua anima autenticamente popolare. Il pallone è di chi lo ama, non dei burocrati, dei pianificatori d’affari, dei procuratori e nemmeno dei bacchettoni. E la musichetta della Champions League non è niente senza i cori delle curve.