Un estratto dell’ultimo saggio di Franco Cardini per Laterza, L’ipocrisia dell’Occidente
Diciamo la verità: è duro sentirsi convinti di appartenere a una civiltà civicamente e culturalmente superiore a qualunque altra in quanto detentrice di valori universali ed avere al tempo stesso l’amara consapevolezza di non trovarsi affatto all’altezza di dimostrarlo. Parigi, la città per tanti versi emblematica della libertà di pensiero e dei diritti dell’uomo, è stata sconvolta fra mercoledì 7 e venerdì 9 gennaio da una terribile catena di eventi luttuosi e delittuosi che per un verso l’hanno lasciata sconvolta, per un altro hanno determinato da parte dei suoi cittadini e di tanti altri convenuti nelle sue piazze e nelle sue strade – tra cui decine di leader politici europei – una risposta che si è proposta come energica e unitaria, e per un altro verso ancora hanno fatto emergere, proprio dalla dinamica di quella risposta (la manifestazione repubblicana di domenica 11), una serie di problemi inattesi, ai quali è stato arduo fornire una convincente risposta.
La mattina del 7 gennaio 2015 due fratelli di fede musulmana d’origine nordafricana, cittadini francesi, Chérif e Saïd Kouachi, rispettivamente di trentadue e trentaquattro anni, hanno fatto irruzione nella sede del settimanale «Charlie Hebdo» – famoso per le sue vignette satiriche nei confronti dell’Islam, come anche del cristianesimo e dello stesso ebraismo – e hanno sterminato quasi tutti i redattori insieme con alcuni appartenenti al personale di custodia nonché, fuori dall’edificio, l’agente di polizia Ahmed Merabet, quarantaduenne, musulmano. Dopo una drammatica fuga sono riusciti a nascondersi in un edificio non lontano da Parigi da dove la polizia li ha stanati due giorni dopo, abbattendoli. È poi emerso che almeno uno dei due, Chérif, era già noto alla polizia e sotto sorveglianza e che era collegato a un gruppo affiliato ad al-Qaeda implicato in una filière di reclutamento di giovani guerriglieri francesi alla volta dell’Iraq e collegato con l’organizzazione Jabhat al-Nusra. Intanto, giovedì 8, il giovane musulmano Coulibaly, in apparenza sprovvisto di legami con i due terroristi, ha a sua volta ucciso nei pressi del Parco di Montrouge, nel XIV arrondissement, un’agente della polizia urbana e quindi il giorno dopo, la mattina del 9, assalito un supermarket kasher alla Porte de Vincennes, nel XX, catturando alcuni ostaggi tra i clienti dell’esercizio, cittadini di religione ebraica che stavano preparandosi allo shabbat, e abbattendone quattro. Nello stesso giorno è stato ucciso dai membri di un reparto di polizia che aveva fatto irruzione nei locali del supermarket.
L’incalzare degli eventi ha causato una ridda di notizie false o inesatte, un accavallarsi di commenti e di polemiche. A caldo, il massacro dei giornalisti e dei vignettisti di «Charlie Hebdo» – già da tempo nel mirino degli islamisti a causa di alcuni disegni che satireggiavano la figura del profeta Muhammad – ha provocato una grande manifestazione largamente spontanea, in Place de la République, il cui carattere era quello della rivendicazione del diritto alla satira come parte della libertà di stampa e di quella tout court di espressione, obiettivo concettuale della strage. I convenuti avevano infatti innalzato una foresta di penne e di matite simboleggiando con quel gesto la loro volontà di rispondere con le armi della libera e coraggiosa critica ai kalashnikov degli attentatori: le armi del pensiero e dell’ironia contro quelle del terrorismo fanatico e ottuso che sa solo uccidere e ama la morte. Il motto «Je suis Charlie», immediatamente tradotto in molte lingue (arabo compreso), esprimeva la volontà di sottolineare come il settimanale colpito rappresentasse tutti coloro che credono nei valori universali della difesa di una libertà insofferente di limiti e di tabù.
A Parigi, nella carneficina del 7 gennaio, si è colpita l’umanità intera perché si sono colpiti diritti universali: primo fra tutti quello della libertà di pensiero e d’espressione. Bella e commovente l’immagine di Place de la République straripante di folla commossa. Bello poter ripetere in tutte le lingue: «Je suis Charlie». Il settimanale «Charlie Hebdo» ci rappresenta tutti, non per quel che scrive e disegna ma per quel che simboleggia: l’orgoglio di una libertà che non conosce tabù. Era quanto aveva appunto dichiarato, dopo un assalto terroristico già precedentemente subìto dal giornale e che ne aveva danneggiato la sede, il famoso disegnatore Stéphane Charbonnier («Charb»): ai responsabili di quell’attacco, causa del quale erano state le caricature del Profeta, Charbonnier replicava che nella cultura occidentale – o comunque nella sua personale interpretazione di essa – una religione altro non è se non una forma di filosofia o d’ideologia, per cui era lecito satireggiare e caricaturizzare Muhammad o la Vergine Maria esattamente come era lecito fare entrambe le cose nei confronti di Karl Marx o del presidente Obama.
Parigi intanto si vestiva a lutto. Nella notte tra il 9 e il 10, allo scadere di ciascuna ora fino alle due, i turisti ignari avrebbero aspettato invano sul Pont Neuf, con i portatili pronti alla foto, lo scintillare d’oro e di luci ingemmate della Tour Eiffel che ogni notte si ripete. La torre sarebbe rimasta buia quella notte, nella sua freddezza ferrigna contro il cielo cupo di gennaio. In lutto, come le bandiere abbrunate. La Ville Lumière rinunziava per una notte al suo splendore. Lutto per i redattori di «Charlie Hebdo», per i poliziotti caduti nell’esercizio del loro dovere, per le vittime dell’attentatore solitario di Porte de Vincennes la cui personalità stava frattanto profilandosi come quella inquietante di un disadattato, di un portatore di turbe psichiche, il quale comunque aveva ostentato simpatie per lo stato islamico del califfo al-Baghdadi. Questo particolare, d’altronde, poneva almeno sotto il profilo indiziario un nuovo e magari non trascurabile problema per gli osservatori più attenti. Al-Qaeda e Jabhat al-Nusra sono avversarie dello stato islamico, pur condividendone l’origine teologica salafita. Dietro le due diverse e rivali confessioni seguite – ma non sappiamo con quanta consapevolezza, né se sulla base o meno di un piano tattico o perfino strategico più ampio – si disegna, in filigrana, la lotta civile e religiosa tra le varie anime dell’Islam politico, la fitna: una lotta che ormai non riguarda più soltanto i paesi musulmani, bensì anche quell’Occidente nel quale stanno crescendo – ma è un altro fenomeno che per il momento non siamo in grado di valutare né quantitativamente, né qualitativamente – le conversioni alla fede coranica; e insieme con esse, fatalmente (ma in una misura a sua volta ardua a quantificarsi), anche le candidature degli aspiranti combattenti del jih?d.
Peraltro, una forte disparità di vedute ha cominciato presto a profilarsi anche nell’opinione pubblica francese e nei mass media che la rappresentavano, per poi comunicarsi a tutta quella genericamente occidentale. Non a caso, nel messaggio televisivamente trasmesso alla nazione francese nella serata dell’8 dal presidente Hollande, e che ha dato a non pochi osservatori l’impressione di essersi lasciato tentare dall’occasione offertagli dalle tragiche circostanze per recuperare almeno parte di quella popolarità che negli ultimi mesi era andata colando a picco, l’accento è stato posto sulla necessità di fornire al terrorismo una risposta coerente, concorde, unitaria. Ma la prospettiva unitaria è stata immediatamente incrinata dall’insorgere delle polemiche relative all’opportunità che alla manifestazione repubblicana indetta per la domenica 11 (a proposito della quale si è parlato di due milioni di partecipanti) fosse ammesso anche il Front National. Chiara la ragione del contendere: a molti spiaceva che un partito sostenitore di un’islamofobia generalizzata e acritica, che tende a individuare in tutti i musulmani degli almeno potenziali terroristi, potesse compromettere l’immagine, che si voleva invece far passare con chiarezza, della ferma volontà popolare di opporsi al terrorismo, non a una cultura e tantomeno a un credo religioso. E d’altra parte, come escludere dal coro unitario della nazione una forza politica che ne è divenuta una delle voci principali?
Né ciò basta ancora. Al di là della ferocia della strage perpetrata nella sede di «Charlie Hebdo» e nelle persone stesse delle vittime di essa, sul piano simbolico e concettuale è alla libertà di pensiero e di espressione che si è attentato. Ma allora, ci si è chiesti, siamo certi che la classe politica francese attuale, con le sue scelte, sia adatta a ergersi davvero e con coerenza a paladina di un tale, altissimo valore? Lo stesso Hollande, che l’8 sera lo aveva proclamato e ribadito, ha corretto la mattina dopo il tiro facendo precipitosamente sapere all’opinione pubblica che «per facilitare le indagini di polizia» e per non concedere ai terroristi «la visibilità che essi desiderano» avrebbe potuto essere necessario ricorrere a qualche forma di silenzio-stampa e di limitazione provvisoria della libertà a vantaggio della sicurezza. È riaffiorato dunque nella Francia del 2015 lo stesso problema che si era presentato negli Stati Uniti tre lustri or sono, all’indomani dell’11 settembre: è lecito, nel nome della sicurezza, rinunziare a qualche parcella di libertà? La questione è aggravata dal fatto che la libera repubblica francese ha imposto mesi fa una legge che proibisce alle donne musulmane di indossare il velo nei locali pubblici: e il proibire è un provvedimento liberticida non minore, per quanto di segno opposto, dell’obbligo d’indossare tale indumento che vige in certi paesi musulmani. D’altra parte essa ha legiferato, anche a proposito del cosiddetto revisionismo storico, in una direzione che è apparsa come pregiudiziale nei confronti non solo della libertà di coscienza, ma anche di quella di ricerca scientifica. Come la mettiamo con gli Immortali Princìpi dei quali Marianne va tanto fiera?
Quest’ordine di problemi ha conosciuto un imbarazzante strascico proprio in seguito alla manifestazione repubblicana dell’11. Ad essa ha partecipato anche un altro personaggio scomodo del mondo francese, il comico Dieudonné, che per la sua impostazione filopalestinese è stato accusato di antisemitismo. Ebbene, in una lettera aperta indirizzata al ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, egli ha dichiarato: «Da un anno, lo stato cerca di eliminarmi con tutti i mezzi. Linciaggio mediatico, interdizione dei miei spettacoli, controlli fiscali, ufficiali giudiziari, perquisizioni… Più di ottanta processi si sono abbattuti su di me e sui miei cari. E lo stato continua a perseguitarmi. Da un anno sono trattato come il nemico pubblico numero uno, mentre cerco solo di far ridere…». Quel che insomma si accordava e si accorda liberamente a «Charlie Hebdo» verrebbe in qualche modo negato ad altri. E lo stesso settimanale è stato investito da qualche coda polemica, quando si è ricordato che mesi fa un suo giornalista era stato licenziato per aver criticato alcuni aspetti della vita dell’ex presidente Sarkozy (per la cronaca: Dieudonné è stato arrestato di nuovo).
Ulteriore motivo di polemica si è originato dallo sdoppiamento della manifestazione unitaria, una parte della quale ha avuto come centro la Synagogue de la Victoire, dove la cerimonia in onore delle vittime del supermarket kasher ha finito con l’incentrarsi sulla partecipazione del premierisraeliano Netanyahu, che pare aver preso Hollande in contropiede e del quale è stato discusso, con molta perplessità, l’invito rivolto ai cittadini francesi di religione ebraica a trasferirsi in Israele, paese più sicuro e loro autentica patria.
Last but not least, non è mancata la contestazione magari non esplicita ma tuttavia strisciante allo stesso fortunato motto che ha dominato le tormentate giornate parigine. Molti tra blog e tweet – in questa contesa a più fronti, che ha anche un rilevante aspetto informatico – hanno avanzato distinzioni spinte fino a prese di posizione dichiaratamente non allineate. Je ne suis pas Charlie, ha dichiarato senza peli sulla lingua qualche esponente cattolico, che a «Charlie Hebdo» non perdona le troppe vignette blasfeme – poco umoristiche e spesso molto volgari, per la verità – e che ha quasi l’aria d’invidiare l’intransigente rigore con il quale i musulmani difendono la loro fede reagendo alle offese contro il Corano e contro il Profeta, mentre i cristiani non osano reagire se una vignetta si burla del parto virginale di Maria disegnandola in un atteggiamento «ginecologico» giudicato disdicevole. Il che, a dir la verità, è solo un problema dei cristiani e di nessun altro (lo dico da cattolico).
Ma sono stati i cittadini francesi di fede musulmana, d’origine asiatica o africana ma anche europei di antica stirpe e più o meno di recente convertiti, a manifestare con maggior decisione il loro disagio. Nel corso della manifestazione di domenica si sono verificati atteggiamenti di solidarietà e di fratellanza nei loro confronti, accompagnati però anche da altri che esprimevano, se non proprio antipatia, quanto meno riserva, ispirata al forse non diffuso ma comunque corrente pregiudizio secondo il quale tutti i musulmani sarebbero in fondo, in quanto tali, suscettibili di essere sospettati di simpatia o connivenza nei confronti del terrorismo islamista. In risposta, i cartelli inalberati da molti manifestanti dinanzi alla grande moschea parigina, che recitavano rivolti ai terroristi un pas en mon nom, traduzione letterale del not in my name con il quale, negli Stati Uniti e in Inghilterra, si è reagito ai bombardamenti occidentali in Iraq e in Afghanistan, erano in fondo a doppio taglio: protestavano contro il terrorismo, ma al tempo stesso criticavano l’atmosfera di sospetto strisciante dalla quale si sentivano circondati.
Atmosfera che trapela anche dalla tesi del romanzo di Michel Houellebecq Soumission, a sua volta ritenuto da qualcuno probabile concausa scatenante degli attentati terroristici del 7, 8 e 9. Houellebecq, il cui romanzo è stato immediatamente tradotto anche in italiano, ipotizza che in una Francia del futuro molto prossimo – appena tra qualche anno – le elezioni portino alla guida della repubblica un presidente musulmano moderato e ragionevole, che dolcemente guida il paese verso un destino autoritario e patriarcale, rispetto al quale tanti cattolici – magari anche di destra – si trovano d’accordo con lui. Insomma, un ulteriore e sostanzioso passo verso quell’Eurabia da qualcuno temuta e che, alla prova dei fatti, potrebbe rivelarsi gradita da quegli stessi che si presentano come i suoi più acerrimi avversari.
Ma la finzione narrativa di Houellebecq è l’altra faccia della medaglia di una situazione (questa sì reale) che ha assistito a un inedito ravvicinamento tra una certa sinistra – quella più dichiaratamente libertaria, quindi affezionata a «Charlie Hebdo» e che si sente da esso ben rappresentata – e una certa destra – quella antislamica per radicato e indiscriminato pregiudizio e al tempo stesso più conservatrice –, sulla base dell’ostilità altrettanto viva ancorché diversamente motivata nei confronti dell’Islam fondamentalista, considerato in ultima analisi l’estremo ma anche più autentico e profondo volto della fede musulmana.
«Siamo in guerra». Lo hanno detto in molti. Lo aveva già preannunziato papa Francesco con le sue espressioni sulla «terza guerra mondiale». Da noi, lo ha ripetuto Umberto Eco. Sulla rivista «Le Point» del 15 gennaio, che ospita una carrellata di opinioni articolate e sotto molti aspetti dissonanti – da Orhan Pamuk a Salman Rushdie, da Luis Sepúlveda a Jean Delumeau ad André Glucksmann –, è stato il Grand Vieux dell’Académie Française, Jean d’Ormesson, ad affermare con decisione: «Le monde change autour de nous. Nous sommes en guerre. Non contre l’Islam, mais contre le terrorisme. Il n’est pas question d’entreprendre une guerre de religions. Mais il faut affronter avec détermination et courage une guerre des droits de l’homme contre l’intolerance, une guerre des libertés contre la barbarie».
Appunto. Ma proprio questo è il problema. Le nobilissime parole di d’Ormesson, proprio in quanto tali, non solo non chiudono il problema, bensì spalancano dinanzi a noi nuovi, abissali aspetti di esso. La guerra sarebbe quindi quella contro il terrorismo: ma come, e soprattutto perché, si diventa terroristi? E come s’identifica un esercito non solo nascosto, ma anche dotato di più volti magari tra loro contrastanti? Se la manovalanza terrorista va da adepti a forme d’intellettualismo nihilista del tipo denunziato da Glucksmann (in Italia si è scoperto che uno studente-modello della Scuola Normale Superiore era adepto di una formazione jihadista) fino a sottoproletari reclutati nelle sacche di emarginazione e di miseria delle banlieues e perfino nelle carceri, come separare la loro attività di esecutori (magari spesso dotati di pratica autonomia) dai mandanti e dai finanziatori che possono annidarsi anche nelle pieghe elitarie del mondo musulmano, ad esempio tra gli emirati della penisola arabica? Nella serata del 9, sul canale televisivo France 2, il miglior politologo specialista dell’Islam di tutta la Francia, Gilles Kepel, ha messo in guardia. Attenzione, ha detto, la «guerra contro il terrore» gestita da Bush jr. dal 2001 al 2008 ci ha regalato l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq con tutte le loro nefaste conseguenze; ma allora l’Islam fondamentalista aveva il volto dei guerriglieri sauditi e yemeniti prima alleati e poi acerrimi nemici degli statunitensi, mentre oggi – nell’era di Twitter – il verbo jihadista s’insinua nelle periferie, nelle più miserabili pieghe della società del benessere che non è più tale, si trasforma in un impossibile sogno apocalittico di redenzione e di rivalsa. Siamo sempre più spesso davanti a Lumpenterroristenguadagnati alla loro causa sanguinosa da una predicazione fanatica, veicolata da strumenti informatici a loro volta sofisticatissimi. La nostra sensibilità ancora ispirata, magari implicitamente, all’idea di un progresso irreversibilmente volto verso forme sempre più ampie di conquista sociale, civile e culturale mal si rassegna all’idea che il «ritorno selvaggio di Dio» che ha per tanti versi caratterizzato e sta caratterizzando lo scorcio tra XX e XXI secolo possa essere in sé la prova di un fallimento, sia pur parziale, della modernità laica. Credevamo e magari speravamo che il progresso, la scienza, la tecnica, il miglioramento delle condizioni sociali, avrebbero nel loro dialettico avanzare messo in crisi e fatto progressivamente scomparire il «bisogno del Divino» nel genere umano: che cosa non ha funzionato?
Se siamo immersi in una guerra nella quale è difficile distinguere i contrapposti schieramenti, va detto che ad essere finora insufficientemente sviluppata a livello critico è stata l’analisi delle ragioni per le quali si diventa terroristi: ricercarle nel fanatismo è non solo generico e astratto, ma soprattutto tautologico. Quel che finora è stato quasi sempre taciuto e magari perfino negato dai media occidentali è l’aspetto sociale della predicazione jihadista, che del resto fa parte della sua connotazione apocalittica. Già a impedirci di comprendere a fondo il successo di formazioni come la sciita Hezbollah e la sunnita Hamas – le quali peraltro si sono espresse entrambe, e senza ambiguità, in termini di decisa condanna degli attentati terroristici – è stata l’ignoranza o la sottovalutazione della loro componente sociale. Quel che forse spinge molti musulmani specie giovani e giovanissimi – tra i quali occidentali neofiti, che trovano evidentemente oggi nell’Islam quel che l’altro ieri i loro padri e ieri i loro fratelli maggiori trovavano nell’estremismo politico-utopistico o nel viaggio pseudoliberatorio della droga – a cercare l’arruolamento nelle formazioni jihadiste non è l’odio contro l’Occidente inteso come cultura della libertà e dei diritti dell’uomo, bensì la costatazione che tale cultura, formalmente sostenuta e anzi ostentata, coincide nella realtà delle cose con quelle forme di repressione e sfruttamento che trovano la loro espressione nel viluppo d’interessi tra stati occidentali, lobbies multinazionali e forme varie di corruzione nelle stesse élites di governo dei paesi musulmani. In un mondo governato da un crescente processo di concentrazione della ricchezza e al tempo stesso d’impoverimento, proletarizzazione e addirittura sottoproletarizzazione a livello mondiale di quelli che un tempo si sarebbero chiamati i ceti subalterni, la fame e la sete di giustizia possono ben assumere i connotati del jih?d voluto da Dio. Quel che da noi di rado si dice è che la propaganda jihadista si alimenta non solo di visioni religioso-politiche universalistiche e apocalittiche, ma anche d’istanze di giustizia sociale.
D’altra parte questo silenzio, questa sottovalutazione, sono logici: noialtri preferiamo pensare che chi si proclama o si dimostra nostro avversario ci odi perché è un fanatico piuttosto che chiederci se, per caso, una parte almeno del suo odio non dipenda dalla coscienza di uno stato di prostrazione e di miseria dovuto agli effetti di un secolare sfruttamento, mentre la nostra opulenza riposa sul sistematico drenaggio di ricchezze al quale le nostre multinazionali sottopongono paesi le cui risorse sono immense ma non ricadono, se non in ridicola misura, su quanti li abitano.
Non era allegra, in quei giorni, Parigi. Passata l’atmosfera quasi paradossalmente, per non dire istericamente, festosa della manifestazione di domenica 11 gennaio, essa aveva recuperato tutte le sue più plumbee sfumature di bigio dei cieli di pucciniana memoria, mentre il gaio e superbo tricolore della Rivoluzione e di Napoleone pendeva mesto e attorcigliato alle aste, legato con un nastro nero che lo abbrunava. D’altronde la contingenza tragica si collega a un lungo momento d’insicurezza e di mestizia. Anche i parigini si vanno di giorno in giorno sentendo più poveri, un po’ come tutti noi, in questa fase di crisi profonda dell’euro e dell’Europa; e i giovani disoccupati o sottoccupati musulmani, che nelle banlieues e nelle carceri sono stati raggiunti dal truce sogno di rivalsa della guerra santa, non sanno più ormai immaginarsi un domani di redenzione attraverso la via onesta e faticosa del lavoro e della progressiva affermazione all’interno di una società dapprima loro ostile e quindi ammirata e aperta di fronte alla loro intraprendenza e al loro successo. Tutto ciò è solo la memoria lontana di qualcosa in cui un tempo si poteva credere, ma adesso non più. E vagheggiano il paradiso all’ombra delle spade.
D’altronde, se Glucksmann denunzia il nihilismo degli aspiranti terroristi e stigmatizza il fatto che gli europei abbiano accettato con «silenzio assordante» che i predicatori jihadisti pronunziassero le loro fatw?, mostra di non essersi mai accorto che i contenuti di quella predicazione a loro volta denunziavano un altro nihilismo, quello della società occidentale unilateralmente volta al profitto e al primato dell’individualismo privo di regole e limiti. Ed era nihilista la stessa libertà rappresentata dall’équipe di «Charlie Hebdo», quella che si arrogava, e presumibilmente continuerà ad arrogarsi, il diritto di sottoporre qualunque oggetto alla fèrula della satira sulla base dell’equivalenza aprioristica tra opinione personale, tesi ideologica, espressione politica e rivelazione religiosa. Non a caso il sottotitolo di «Charlie Hebdo» suona «Journal irrésponsable». La sua libertà non è nemmeno tanto quella di Voltaire e di Rousseau, quanto semmai quella del marchese de Sade: la libertà dei ricchi e dei forti, per i quali gli altri sono disprezzabili oggetti, per quanto l’ipocrita retorica umanitaria di cui siamo impastati nella nostra vita quotidiana c’impedisca, se non di renderci conto di ciò, quanto meno di esprimerlo. Ci siamo evidentemente dimenticati che chiunque ritenga che i princìpi sui quali egli personalmente si fonda siano gli unici universali mentre quelli degli altri sarebbero solo ridicole forme di superstizione o di fanatismo cade in quell’errore che un grande europeo, l’antropologo Claude Lévi-Strauss, avrebbe qualificato come «occidentocentrismo» (o magari «modernocentrismo»).
Ma proseguiamo nella scomoda analisi dei paradossi e delle contraddizioni affiorati sulla scia sanguinosa dei fatti di Parigi. «Siamo in guerra», hanno affermato solennemente in molti all’indomani dell’attentato. Occorreva quella sanguinosa riprova per rendersene conto? Indipendentemente dalla politica di conquista, di sfruttamento – e magari anche di civilizzazione ma comunque di oppressione che gli europei hanno esercitato sul resto del mondo nell’ultimo mezzo millennio –, siamo tanto distratti da non aver notato che gli ultimi decenni sono stati una serie continua di operazioni militari (magari di «polizia internazionale» e «d’intervento umanitario», se non di «esportazione della democrazia») condotte da paesi occidentali – e la Francia di Sarkozy e di Hollande negli ultimi anni è stata al riguardo in prima linea – nel Vicino e nel Medio Oriente? È razionale assistere allo spettacolo in tv degli aerei occidentali che bombardano paesi e città magari massacrando popolazioni indifese e pensare che lo stato di guerra che con ciò si presenta dinanzi ai nostri occhi non si debba mai ritorcere in alcun modo contro di noi? O abbiamo dimenticato il principio – che pure era stato solennemente sancito dai fautori della Resistenza antinazista europea – secondo il quale in una situazione di «guerra asimmetrica» il terrorismo è l’unica arma efficace nelle mani di chi non dispone di altro per difendersi? O trascuriamo il fatto che sterminare centinaia di persone – donne e bambini compresi in un colpo solo servendosi di un drone che ci consente di non rischiare nemmeno una perdita da parte nostra – è una forma diversa ma non meno grave di terrorismo rispetto a quella del Lumpenterrorist che abbatte degli innocenti a colpi di kalashnikov?
Ciò detto, resta perfettamente legittimo da parte nostra scegliere all’interno dell’Islam i nostri alleati nello schieramento che amiamo definire moderato (e nel quale usiamo includere quando e finché ci conviene anche i dittatori, se conducono una politica a noi favorevole, e perfino gli emiri del Golfo che impongono il velo integrale alle donne e vietano loro di andare a scuola e di guidare l’auto). Ma, se davvero siamo in guerra, adottiamo allora un atteggiamento moderno e spregiudicato dinanzi ad essa. In primo luogo accettando che il nemico non è per definizione né un demonio né un mostro, bensì uno come noi che persegue – magari talvolta sbagliando e talaltra commettendo dei crimini – uno scopo analogo al nostro: cioè vincere. À la guerre, comme à la guerre.
Una guerra che comporta ovviamente la morte. Anche i tre attentatori di Parigi sono morti: e la loro ideologia del martirio, sostenuta dagli aderenti alla galassia dei gruppi che si riconoscono in al-Qaeda e le parole d’ordine dei quali richiamano tanto da vicino il mori lucrum paolino, è stata così a modo suo onorata. Non ci si poteva certo aspettare che qualcuno li ritenesse degni a loro volta di un, se non rispettoso, almeno compassionevole ricordo, a parte la pietà cristiana che riguarda, appunto, solo i cristiani. Eppure avremmo dovuto quanto meno occuparcene con maggiore attenzione: anche nel nostro interesse. Le vicende delle loro esistenze, anche filtrate attraverso la sprezzante distrazione dei media, parlano il linguaggio della sofferenza, della fatica di vivere: l’infanzia spesso infelice, solitaria, segnata da innominabili violenze subite; la mancanza d’istruzione prima dell’«università del crimine», ovvero il carcere che ormai è spesso anche madrasa d’islamismo fondamentalista; la disoccupazione o la sottoccupazione; il confronto frustrante tra la propria emarginazione e l’opulenza di una città che alberga pure tante tragedie umane ma dove in apparenza ricchezza e spreco trionfano; il bombardamento dei messaggi consumistici diffusi dai media con le umiliazioni di una realtà frustrante e miserabile; in almeno un caso (mi riferisco a Coulibaly), turbe psichiche che a loro volta costituiscono una malattia che ignoranza e indigenza impediscono di curare; infine, la falsa redenzione di un credo fanatico di morte che con l’Islam non ha nulla a che fare – per quanto si nutra del nome di Dio proferito in quell’invocazione «Allahu Akbar!» che in certe bocche e in certe circostanze suona come una bestemmia – e di pochi versetti del Corano mandati a memoria senza fede e non compresi né meditati.
Fanatici, si è detto: ma come, ma perché si diventa fanatici, sino al punto di trasformarsi anche in assassini? Fanatismo: davvero possiamo accontentarci di questa spiegazione che non spiega un bel niente? E davvero tanta gente, tra le decine di migliaia di parigini e di francesi che in gennaio hanno affollato le vie e le piazze manifestando la loro opposizione al terrorismo e il loro orgoglio di liberi cittadini che non si piegano dinanzi alla minaccia armata, non ha pensato nemmeno per un attimo che Parigi ha vissuto in tre giorni forse meno di un millesimo dell’ansia, della paura, del dolore che a Gaza, a Baghdad, a Kabul e in migliaia di città e di paesi sparsi tra Asia e Africa musulmani, ebrei e cristiani soffrono ogni giorno? «Siamo in guerra», hanno ripetuto in tanti. Anche papa Francesco – come abbiamo già detto – lo ha affermato, qualche mese fa: la terza guerra mondiale è già cominciata. Ma in guerra fra chi, in guerra contro chi? Non si erano forse accorti, i francesi, di essere in guerra già almeno dal 2011, quando il presidente Sarkozy ha appoggiato con decisione le milizie jihadiste in Libia contro Gheddafi e poi il presidente Hollande in Siria contro Assad (e ciò, specie nel secondo caso, in diretto contrasto con le indicazioni delle stesse chiese cristiane locali)? Anche a Tripoli, a Damasco, ad Aleppo ci sono stati e continuano ad esserci dei morti: molti di più di quelli dell’attacco terroristico di Parigi di qualche giorno fa. Vi sono città dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina che vivono ogni giorno moltiplicate per mille l’ansia, la paura, la disperazione che Parigi ha vissuto per tre giorni; e moltiplicati per mille e più i suoi morti.
Alcune indiscrezioni rivelano che le costose armi automatiche usate dai fratelli Kouachi per lo sterminio dei redattori di «Charlie Hebdo» possono essere finite nelle loro mani in quanto parte delle dotazioni a suo tempo passate dal governo francese ai jihadisti antigheddafiani e antiassadisti. Ai jihadisti, tra i quali militano anche alcuni ragazzi europei, magari convertiti all’Islam, che nel jihadismo hanno trovato in forma distorta un surrogato a quella educazione politica e religiosa che da noi ormai non s’impartisce più. Ma davvero abbiamo la memoria tanto corta? Davvero abbiamo dimenticato che fin dagli anni Settanta sono stati gli statunitensi che in Afghanistan, in funzione antisovietica, si sono serviti dei guerrieri-missionari fondamentalisti provenienti dall’Arabia Saudita e dallo Yemen preferendoli ai severi e rigorosi combattenti del comandante Massud, portatori di un Islam fiero e intransigente ma anche tollerante? Davvero ignoriamo che la malapianta del fondamentalismo l’abbiamo innaffiata e coltivata per anni noi occidentali, prima che nella metà degli anni Novanta i rapporti si guastassero? Sul serio non sappiamo nulla del fatto che ancor oggi il jihadismo – quello di al-Qaeda e quello, rivale e concorrente, dell’Islamic State (IS) del califfo al-Baghdadi – è sostenuto e aiutato, e neppure in modo troppo nascosto, da alcuni emirati della penisola arabica che pur sono tra i nostri più sicuri alleati nonché – e soprattutto – partner finanziari e commerciali? È vero che, com’è stato detto, pecunia non olet: eppure almeno il petrolio dovrebbe farlo.
Ma di tutto ciò, per ora, siamo ancora in troppo pochi a far parola. Per la verità qualche critica comincia a far capolino: se non granché tra gli opinion makers, quanto meno fra la gente fra un bloge l’altro, fra un tweet e l’altro. Anche se, purtroppo, la vulgata continua a trionfare: bella, semplice, pulita. E maniacale, repellente nel suo manicheismo che si spera sia almeno in malafede, perché altrimenti sarebbe troppo idiota. La vulgata dell’Occidente come patria della libertà e della tolleranza, e dell’Altro, il Nemico, come orribile, mostruoso, disumano e quindi inumano e antiumano, fanatico e quindi privo di qualunque ragione, incomprensibile e quindi ingiustificabile perché indegno di quella forma di comprensione che non è sinonimo di giustificazione (come si può giustificare un assassinio?) bensì esercizio della critica, della capacità di penetrare i meccanismi intimi di qualcosa che pur si disapprova con orrore. Noi occidentali ci siamo sbrigativamente assolti da ogni errore e da qualunque crimine: al massimo, siamo disposti a rovesciarli sul nazismo (che però è un passo indietro verso il «buio medioevo») o sullo stalinismo (che però è un tuffo nella «sanguinosa utopia») o ancora, con uno sforzo di prospettiva storica un po’ più profonda, suiconquistadores. Ma per il resto, notte e nebbia: su secoli di rapina, di schiavismo, di sistematica razzia di materie prime e di forza-lavoro, su cumuli d’infamie che abbiamo coperto con la coltre benevola dei diritti dell’uomo e di una libertà-fratellanza-uguaglianza che in realtà cominciava da noi e finiva con noi, della quale eravamo di diritto soggetti e oggetti esclusivi, almeno de facto. Anche i «lavoratori di tutto il mondo» che Marx ed Engels esortavano a unirsi erano in fondo – come abbiamo già osservato – quelli compresi nel triangolo tra Parigi, Berlino e Londra: ne erano esclusi non diciamo i fellahin egiziani e i pastori afghani, ma perfino gli zappatori campani e i vignaioli greci.
Ecco perché personalmente rispetto profondamente il sacrificio dei redattori e dei disegnatori di «Charlie Hebdo» e mi sento solidale e commosso partecipe del dolore delle loro famiglie: eppure, pur sentendoli senza dubbio parte di quella cultura europeo-occidentale che è anche la mia, non mi riconosco nella loro visione del mondo e rivendico il mio diritto a dichiararlo con chiarezza. Essi erano, e i loro colleghi e sodali continuano ad esserlo, fautori di una libertà individuale illimitata, insofferente di limiti e di regole; una libertà «sadica» (nel senso etimologico del termine) che d’altronde, nella civiltà europea, non è affatto l’unico modello. Esistono anche quello aristotelico e quello kantiano di una libertà responsabile che termina dove comincia quella altrui, modelli che distinguono tra «libertà di», «libertà da» e «libertà per». Una libertà che non pensa orgogliosamente di potersi riallacciare a valori unilateralmente dichiarati universali ma che, memore dell’insegnamento di Claude Lévi-Strauss, tiene presente che è non meno universale e pertanto degno di rispetto qualunque altro valore sostenuto alla luce di culture diverse dalla nostra: diverse, non inferiori. Una libertà che non si esercita calpestando quella altrui. Una libertà che sa di non poter progredire senza la giustizia: il che, al giorno d’oggi e arrivati a questo punto nel processo di globalizzazione, non può non significare l’assunzione di una prospettiva di ridistribuzione della ricchezza.
È il problema che fin dal 2003, l’infausto anno dell’avventura irakena, si era lucidamente posto Noam Chomsky in Hegemony or survival. America’s quest for global dominance. Il presidente Obama non era presente alla manifestazione parigina dell’11 gennaio. Qualcuno l’ha accusato di aver perduto un’occasione, di aver fatto un errore. Sia come sia, la sua assenza era eloquente. In tempi di ormai irreversibile multilateralismo, la questione egemonica non riguarda più gli Stati Uniti d’America, o comunque non soltanto loro. Ed è questa global dominance la realtà profonda del problema sotteso a quello che, maldestramente, altri aveva definito clash of civilizations.
Le religioni possono anche venire invocate come alibi per questo scontro; e qualcuno, nella manovalanza del terrorismo islamista come in quella dell’ottusa islamofobia di certi occidentali, può anche pensare che ne siano causa effettiva. Ma le ragioni reali del conflitto mondiale ormai aperto risiedono nello scontro fra la brutale volontà di potenza di chi oggi detiene il controllo del pianetaversus la fame e la sete di giustizia che anima, in parte ancora inconsapevolmente, quella che Toni Negri ha a suo tempo definito «la moltitudine». I troppi «dannati della terra», la cui esistenza non possiamo più ignorare se non altro perché essi hanno imparato a conoscerci non per quello che sosteniamo di essere – «la civiltà dei diritti dell’uomo» – bensì per quello che siamo: non ignorano più né quello che abbiamo fatto e che continuiamo a fare, né il livello di vita e di prosperità che le conseguenze della nostra egemonia sul mondo ci hanno consentito di raggiungere, né il costo in termini di sofferenza e di miseria che a causa di ciò il genere umano ha dovuto sostenere.
“L’ipocrisia dell’Occidente”, Franco Cardini, Laterza