E’ da poco nelle librerie, per l’editore Solfanelli, il volume di Riccardo Rosati, Museologia e Tradizione (per ordini: 0871/561806; edizionisolfanelli@yahoo.it, euro11,00). Il testo raccoglie gli scritti che l’autore, yamatologo e anglista, nonché esperto di Beni Culturali, ha pubblicato, nella specifica rubrica del Borghese, dal luglio 2011 all’aprile 2014. Il libro è preceduto dalla prefazione del direttore Claudio Tedeschi e chiuso dalla postfazione, trattandosi di una lettura che coniuga Arte e Tradizione, di Gianfranco de Turris. Gli articoli sono divisi in tre sezioni: nella prima, di carattere teorico, viene discussa la natura e la funzione del Museo, nella seconda sono presentati singoli musei italiani, in particolare orientalistici, mentre nella terza si dibattono questioni politico-sociali legate alla gestione dei Beni Culturali.
La prosa fluida e chiara, in Rosati si accompagna a posizioni contenutistiche nette e controcorrente. Egli si fa latore di un’idea di Museo quale luogo di sacra custodia della memoria spirituale di un popolo. Nella realtà contemporanea, nel clima culturale italiano di questi anni, mirato alla cancellazione di ogni retaggio della Tradizione, le sue affermazioni hanno il tratto del pensiero forte. Il giovane studioso, ricorda che l’Italia vanta due tipologie di museo: collezionistico e di contesto. Il primo, è il risultato della passione per il bello e l’arte di alcuni aristocratici del passato, che hanno raccolto vere e proprie riserve di bellezza in un mondo, come ammoniva Jünger, che di giorno in giorno vede l’affermarsi dell’orrido. Il museo di contesto, invece, può essere considerato luogo di custodia dei distillati culturali, delle diverse aree geografiche della penisola. Il visitatore di tali ambienti ha la possibilità di incontravi il genius loci del territorio. Oggi il museo, sulla scorta della provinciale esterofilia nostrana, è divenuto luogo di “socializzazione” e ciò travisa la natura dell’istituzione museale che nasce per il singolo: “Come la fede dipende dal singolo, allo stesso modo l’amore e l’attenzione per l’arte nascono dalla disposizione dell’individuo verso il Bello” (p. 14). Quindi il libro è un accorato invito a riappropriarci della nostra memoria storica.
Non è casuale che il Museo nasca nel 280 a.c. ad Alessandria, quale luogo consacrato alle Muse, poste sotto la tutela di Mnemosine. La sua istituzionalizzazione sarà realizzata da Costantino, che fece redigere una prima forma di catalogazione museale. Rosati individua nel periodo umanistico il sorgere di collezioni museali in senso proprio, grazie a Sisto IV che organizzò il nucleo originario dei Musei Capitolini, e a Giulio II, fondatore dei Musei Vaticani. Solo nel ‘700 si avrà l’affermarsi del museo pubblico, il cui successo seguirà l’ascesa sociale della borghesia colta nell’Ottocento, affascinata dalla tecnologia. Tale interesse determinerà il sorgere dei musei scientifici. La sacralità dei musei la si rileva nelle produzioni letterarie, nella Biblioteca di Babele di Borges, esemplare metafora del concetto di Bene Culturale. In queste pagine il libro, posto a disposizione di tutti nella biblioteca labirintica, diventa coscienza intellettuale di un’epoca. André Malraux, nel Museo Immaginario, da un lato rileva come un’opera assuma, nel museo, lo status di oggetto divino in un tempio, e come, al medesimo tempo, il museo celi in sé il rischio della custodia obliante. Lovercraft, in L’orrore nel museo, ci dice di come gli oggetti esposti possano riportare in vita incubi mai domi: “L’incubo del passato-memoria è sempre in agguato, pronto ad invadere il presente” (p. 29). Calvino, infine, nel saggio Un romanzo dentro a un quadro, presenta la grande intuizione che ogni museo, come ogni oggetto in esso esposto, possa essere letto, sfogliato come un libro. Il visitatore accorto, vive nell’esperienza museale la dimensione epifanica: l’incontro con il passato, “sveglia” la nostra memoria esistenziale, recupera le appartenenze sopite.
Rosati, inoltre, ci fa da guida nei musei, assai significativi, ma poco conosciuti e frequentati del nostro paese. Ci introduce alle eccellenti raccolte orientali del Museo Chiossone di Genova, oppure lungo i corridoi dell’Orientale di Venezia, nelle sale dello Stibbert di Firenze. Da anglista è attento esegeta delle collezioni britanniche, sorte dallo straordinario amore per la nostra cultura, nutrito da eruditi d’Inghilterra. Ci dice, pertanto, dell’ornitologo Whitaker e del museo archeologico che egli creò sull’isola di Mozia, di fronte a Marsala in Sicilia, nonché della sua casa-museo di Palermo, Villa Malfitano, ricca di arredi preziosi. Racconta del rigoglio solare dei Giardini Botanici Hanbury, sul promontorio della Mortola in Liguria e non trascura il Keats-Shelley Memorial House di piazza di Spagna a Roma.
A proposito di case-museo, l’autore sollecita la visita del lettore a quella di Mario Praz, erudito, esteta di gusto raffinato, estraneo alla modernità e alla pervasività della politica. La cosa lo rese inviso alla casta “intellettuale” dei progressisti in servizio permanente effettivo. Comunque, a Palazzo Primoli, in Via Zanardelli a Roma, il “Professore”, padre dell’anglistica italiana, raccolse oltre mille opere, in sessant’anni di appassionata ricerca: “…gli arredi offrono una godibilissima panoramica di una filosofia dell’arredamento che spazia dal gusto neo-classico della fine del secolo XVIII, passando per lo stile impero, fino alla domestica maniera biedermeier” (p. 53). Insomma, il libro presenta l’Italia quale museo universale, paese accogliente, come la storia romana evidenzia e il cui patrimonio artistico non si limita alla classicità.
Nel Bel Paese, prosegue Rosati, la custodia dei beni Culturali è gestita assai male. Innanzitutto, per la presenza della casta progressista che, per vocazione esistenziale, poco si occupa di memoria patria. Esempi? Il Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma, sorto grazie a Tucci, dispone di spazi limitatissimi, e i suoi depositi sono colmi di opere di vero interesse. Il MAO di Torino, poco frequentato perché scarsamente pubblicizzato. La mancata riqualificazione delle Ville storiche romane e lo stato di degrado in cui versa Villa Torlonia, per non parlare dei limitati successi conseguiti nel recupero del nostro patrimonio artistico trafugato.
Il libro di Rosati non ci interpella solo sul nostro passato, ma chiama in causa il presente degradato perché si possa, attraverso la tutela del Bello, costruire un futuro nazionale all’altezza di ciò che siamo stati. Potrà, la nuova organizzazione dei Beni Culturali che passa dalle Fondazioni, farci uscire dall’impasse attuale? Tutto dipenderà da scelte politiche. Pertanto, allo stato attuale delle cose, il pessimismo della ragione è d’obbligo.