“No pasaran”, pensavano giudici e politici di Madrid, convinti che i catalani non potessero esprimersi sull’indipendenza della propria regione dal resto della Spagna. Sono passati, come da tradizione, anche se il voto simbolico di ieri non ha alcun valore legale e non era altro che una consultazione. Ma se i simboli in politica raccontano la realtà più di mille analisi, i risultati del “9-N”, com’era stato definito il referendum del 9 novembre, parlano chiaro: alle urne si sono presentati oltre 2 milioni di catalani su circa 5,4 di aventi diritto e l’80,72% si è dichiarato favorevole all’indipendenza della Catalogna.
Un risultato significativo, nonostante l’affluenza alle urne sotto il 40% non sia considerata elevata. Ma dopo la bocciatura dell’Alta Corte di giustizia spagnola, che pochi giorni fa ha dichiarato illegittimo il referendum c’era da aspettarsi un calo. Anzi, il risultato andrebbe ribaltato: nonostante non avesse alcun valore, oltre due milioni di catalani hanno sfidato pioggia e lunghe code ai seggi, gestiti da 40mila volontari, per esprimersi sul futuro della propria terra. E la consultazione può aiutare a comprendere la consistenza del fronte indipendentista, vicino – anche se i sondaggi disegnano una Catalogna spaccata in due – a costruire una maggioranza “soberanista”.
Le prime reazioni sono da copione: gli indipendentisti esultano, il governo centrale bolla come “propaganda inutile” la consultazione e i mercati lanciano il consueto allarme che si crea quando i popoli, a torto o a ragione, si esprimono contro i desiderata dei merca(n)ti. Artur Mas, presidente della Generalitat, il parlamentino catalano, ha parlato di «pieno successo. Ci siamo guadagnati sul campo il diritto a un referendum definitivo». Completamente opposto il parere di Madrid, con il ministro della giustizia Rafael Català che ha definito il referendum simbolico «un atto di propaganda politica, senza validità democratica, sterile e inutile» mentre il premier popolare, Mariano Rajoy, aveva detto che «fin quando ci sarò io l’unità della Spagna non è in discussione». Intanto Bloomberg e JP Morgan hanno già fatto sapere che considerano “rischioso” investire nella regione.
Ma il referendum in Catalogna, come quello in Scozia, racconta di un fenomeno difficile da interpretare con le lenti di chi è solito separare la difesa delle integrità nazionali dai localismi più o meno giustificati per ragioni storiche, geografiche o politiche. Esiste un ampio fronte di persone che, in tutta Europa, contesta l’attuale assetto europeo mettendo in discussione, più o meno consapevolmente, i processi sempre più spinti del globalismo cercando una risposta nelle piccole patrie. Un percorso accidentato e pieno di rischi, ma che vale la pena di tenere in considerazione. E forse la frase più sintomatica del “sentire” del popolo catalano, ieri l’ha detta l’allenatore del Bayern Monaco ed ex Barca, Pep Guardiola, convinto sostenitore dell’indipendenza. « Quello di oggi è un passo molto importante e mi dà molta gioia poterne far parte e partecipare – ha detto mentre si trovava al seggio per votare -. Molta gente vuole essere ascoltata e, politicamente, quello che va fatto è ascoltarla». Da una parte governi e banchieri che difendono lo status quo, dall’altra popoli che vogliono essere ascoltati. Non dovrebbe essere difficile scegliere da quale parte stare.