Durante la Repubblica Sociale, Mussolini pensò di coronare il progetto – tenuto a bagno maria durante il Regime – di rivoluzionare il tessuto sociale ed economico italiano attraverso la cogestione delle aziende. Nella RSI la socializzazione avanzò però a fatica, osteggiata da ambienti dello stesso Fascismo, dagli industriali, dai tedeschi, dagli antifascisti. Tuttavia alcuni passi vennero fatti creando precedenti clamorosi – confinati nell’oblio nel dopoguerra – di collaborazione tra fascisti, comunisti e socialisti. Esperienze che le stesse sinistre – ufficialmente ostili alla socializzazione – cercarono di riproporre nel dopoguerra. Ma il vento era ormai cambiato per sempre.
l caos assoluto in cui l’8 settembre 1943 si ritrovò l’Italia costituì l’evento fondamentale di un processo storico che vide sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato con la Nazione, determinando non solo la successiva divisione del Paese in due parti, ma anche l’esplosione della guerra civile. Il tragico momento costituì tuttavia per il Fascismo l’occasione per rilanciare con maggior forza, nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, il progetto di rappresentare una «terza via» tra capitalismo e comunismo: un ritorno alle origini rivoluzionarie. Nel mondo del lavoro la parola d’ordine fu «socializzazione». Il termine, emerso già nei primi mesi della RSI e nel programma del Partito fascista repubblicano che nel novembre del 1943 aveva tenuto a Verona il suo primo, e ultimo, congresso, fu in modo ufficiale adottato, anche su sollecitazione di Nicola Bombacci, il 13 gennaio 1944, quando il Consiglio dei ministri di Salò approvò una «Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economia italiana».
La repubblica del Duce prevedeva la partecipazione integrale del popolo in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e il suo contributo «alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione con il suo lavoro, con la sua attività politica e sociale». Secondo il 12° punto del «Manifesto di Verona» in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai avrebbero dovuto cooperare – attraverso una conoscenza diretta della gestione – alla fissazione dei salari, nonché «all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forme di cooperativa parasindacale».
Era riconosciuta non solo l’importanza del capitale «produttivo», che investiva moneta per creare l’impresa, ma anche quella di chi con il braccio e con la mente forniva elementi altrettanto fondamentali per l’attività economica e sociale. In sintesi: né dominio della moneta, né espropri statali, bensì armonizzazione degli elementi in un rapporto di condivisione delle responsabilità, e degli utili, affinché nessuno si sentisse tanto superiore da ritenersi depositario del destino dell’impresa e, di conseguenza, della Nazione. Dopo aver dichiarato che la RSI assumeva la gestione diretta di aziende che controllavano i settori essenziali per l’indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materia prima o di energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica nazionale, la sopra citata «Premessa» affermava senza possibilità di equivoco che la gestione dell’azienda era socializzata. Tutti i lavoratori avrebbero preso parte all’amministrazione delle imprese a capitale pubblico tramite consigli di gestione, eletti da loro stessi e avrebbero deliberato sia sulle questioni riguardanti la produzione nel quadro del «piano unitario nazionale» sia sulla stessa «congrua» ripartizione degli utili. Per quanto riguardava le aziende a capitale privato, gli organi di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei lavoratori in un numero almeno pari a quello dei rappresentanti eletti dall’assemblea degli azionisti.
Il 12 febbraio 1944 fu emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese (pubblicato in seguito, il 30 giugno, sulla «Gazzetta Ufficiale») che limitava le aziende private da socializzare a quelle con almeno un milione di capitale o almeno cento operai. In merito agli utili da ripartire, dopo le assegnazioni di legge alla riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali, era approvata una remunerazione del capitale conferito all’impresa in una misura non superiore a un massimo fissato ogni anno per i singoli settori produttivi dal Comitato dei ministri per la tutela del risparmio e l’esercizio del credito. Gli utili, detratte queste assegnazioni, sarebbero stati ripartiti fra i lavoratori in rapporto all’entità delle remunerazioni percepite durante l’anno: questo compenso non doveva comunque superare il 30 per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell’esercizio. Con il decreto suddetto era disposto inoltre il primato in materia del ministro dell’Economia corporativa – il cui titolare, Angelo Tarchi, era espressione della componente tecnocratica e mediatrice nei confronti degli ambienti industriali, e quindi oppositore di coloro che auspicavano sia l’immediata instaurazione dello «Stato del lavoro» sia il pieno superamento del sistema corporativo – tanto nell’immediato, con la supervisione dei nuovi statuti delle diverse categorie di imprese, quanto, in prospettiva, mediante la facoltà di procedere allo scioglimento dei consigli di gestione, di sostituire i vertici aziendali, di controllare la fase di passaggio dalla gestione privatistica a quella socializzata, e di commissariare le aziende di cui lo Stato ritenesse opportuno assumere la proprietà.
Con il decreto del 12 febbraio 1944, la Repubblica Sociale Italiana si proponeva di «stare con il popolo», superando quell’«andare verso il popolo» che era stato tipico del Regime. Se alla socializzazione guardarono con simpatia alcuni ambienti sindacalisti, sospetti e timori circa i suoi esiti e la sua rapida applicazione furono, più o meno tacitamente espressi, dagli ambienti conservatori. Ciò spiega il ritardo con cui il decreto fu pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale», in contemporanea con il decreto che ne fissava al 30 giugno l’entrata in vigore. Un terzo decreto, datato 30 agosto 1944, dettò norme per una sua più sollecita attuazione. Malgrado il 10 luglio e il 13 settembre fosse stata disposta la socializzazione delle aziende dell’IRI e del settore dei giornali e dell’editoria, i primi effettivi cambiamenti si ebbero solo alla fine del 1944. Una settimana dopo l’ultimo bagno di folla ricevuto dal Duce a Milano e il discorso al Lirico, fu pubblicato il 22 dicembre il decreto con le norme attuative e integrative della socializzazione. Il documento, accogliendo le ragioni dei sindacalisti, attribuiva maggiori poteri al sindacato, cui spettava il compito di soprintendere alle elezioni interne alle aziende; ai consigli di gestione, che potevano nominare il capo dell’impresa, convocare riunioni del consiglio e presiederle in mancanza del capo dell’impresa; ai rappresentanti dei lavoratori nell’assemblea, non licenziabili né trasferibili in dipendenza dell’attività svolta nell’esercizio della loro carica. Il 19 gennaio 1945 fu istituito il ministero del Lavoro, retto da Giuseppe Spinelli, che prevedeva una Direzione generale per la socializzazione e assorbiva i poteri del ministero dell’Economia corporativa. Soppresso quest’ultimo, Tarchi passò a reggere il nuovo ministero della Produzione industriale. La «Gazzetta Ufficiale» del 26 gennaio 1945 pubblicò il decreto sull’ordinamento della Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti, creata il 20 dicembre 1943. Questa doveva riunire le precedenti confederazioni per superare lo «sbloccamento» del 1928, mentre a fine dicembre del 1944 si era disposta la liquidazione delle confederazioni padronali.
Dall’inizio dell’ultimo anno di guerra presso il ministero del Lavoro si assistette a una frenetica attività socializzatrice. Le aziende socializzate sarebbero state 76, con 129 mila dipendenti e 4.119 milioni di lire di capitale. Ancora oggi poco si conosce in merito all’effettiva applicazione dei provvedimenti. Ciononostante è possibile affermare, perlomeno nel caso della FIAT e della maggioranza delle imprese socializzate, che la fine del Fascismo giunse prima che le misure disposte per decreto dalle autorità repubblicane avessero un concreto impatto sulle realtà aziendali sul piano della predisposizione di statuti e decreti relativi alle singole imprese. Il progetto di socializzazione della RSI naufragò per vari motivi, oltre che per il momento tardivo della sua messa in atto: determinanti furono le divergenze interne allo Stato fascista repubblicano riguardo a misure che rimasero inerti per molti mesi, in una situazione definita «rivoluzionaria», ma tale più sul piano delle parole che su quello dei fatti. Decisive furono sia l’ostilità dei tedeschi, preoccupati per le possibili conseguenze nel campo della produzione bellica, e desiderosi di appropriarsi di macchine e materiali dell’industria italiana, sia la contrarietà degli esponenti di quest’ultima, i quali boicottarono, anche grazie ai legami con la grande industria germanica, i provvedimenti che pure fecero finta di approvare, cercando di rinviarli quanto più possibile. Se molti operai disertarono le elezioni delle Commissioni interne, è anche vero che a esse guardarono con interesse e per vari motivi certi ambienti della sinistra antifascista. Alcuni esponenti di quest’ultima in esilio all’estero erano rientrati in Italia, convinti che, liberato dai vincoli reazionari imposti dal regime, il Fascismo potesse realizzare finalmente le sue pagine di politica sociale più avanzata. Era il momento della «politica dei ponti» che vedeva alcuni antifascisti guardare con interesse alla repubblica del Duce; potremmo, fra i tanti, citare a proposito i fratelli Bergamo, rientrati dalla Francia in nome dei vecchi ideali sociali, repubblicani e antiborghesi. Alcuni rivoluzionari di sinistra ritennero che la politica delle «mine sociali» potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo Fascismo.
A Terni nell’ultimo periodo della RSI, si assistette all’elezione delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL. Nella città umbra il Fascismo volle giocare la carta delle commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni (con il quale il 2 ottobre 1925 il Regime aveva avocato a sé la rappresentanza sindacale con il consenso di Confindustria, che da quel momento avrebbe avuto come referenti sindacali le Corporazioni fasciste e non più i liberi sindacati) e in questo capitolo della storia del sindacalismo entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra. In principio la loro posizione ufficiale fu di «combattere in tutte le forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni anche facendo dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero ancora tali funzioni». Tuttavia questo non fu possibile per la mancanza in Umbria di un’organizzazione sistematica dell’antifascismo, come attesta la documentazione conservata nell’archivio del PCI. Il fronte antifascista in questa regione, debole anche per le diffidenze esistenti al suo interno, accettò quindi che, accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità repubblichine, fossero eletti suoi elementi, comunisti, socialisti e anarchici. Questa scelta finora occultata, perché imbarazzante, può essere spiegata con la disorganizzazione dei comunisti, con lo scarso numero dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, con la diffidenza esistente tra le forze di sinistra, con la volontà – comune anche ai fascisti – di opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ci furono, soprattutto tra i comunisti, iniziali opposizioni e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi, però, ai «compagni» occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le commissioni elette, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con gli organi direttivi degli stabilimenti «su un terreno antitedesco», e collegarle al «comitato di partito dell’officina». Pertanto, quando il 1° marzo 1944, alla «Terni» si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della categoria operai, sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l’assenso dei sindacati fascisti, elementi comunisti, socialisti e anarchici. Loro obiettivi erano opporsi all’asportazione dei macchinari industriali da parte dei nazisti e inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per anni erano stati esclusi.
Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro Togliatti, in vista dell’imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione, essi ne avrebbero rivendicato il diritto: «Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie…». Un implicito riconoscimento del fatto che anche l’odiata dittatura aveva compiuto qualcosa di buono per i lavoratori. Negli stabilimenti siderurgici della «Terni», accanto ai sindacalisti Maceo Carloni e Faliero Rocchiccioli, firmatari nel 1940 del contratto dei metalmeccanici e ad altri fascisti come l’operaio Bruno Marini e l’impiegato Alvaro Garzuglia, furono eletti il socialista Giuseppe Scalzone per la categoria impiegati; per la categoria operai: Ettore Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista; l’ex confinato socialista Umberto Bisci; l’anarchico Gioacchino Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato sovversivo. L’esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni impartite, qualche giorno dopo, il 7 marzo, dal commissario nazionale del lavoro, per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non iscritti. Il decreto proibiva a chiunque di «assumere per qualsiasi motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma delle vigenti leggi, di esclusiva competenza delle organizzazioni sindacali legalmente riconosciute». Ma nelle settimane precedenti la liberazione di Terni, preoccupati dalla tutela del lavoratore e dalla volontà di salvaguardare l’esistenza delle acciaierie, nelle commissioni di fabbrica lavorarono a stretto contatto fascisti e antifascisti. Cosa indusse molti di questi ultimi ad accettare tale politica di collaborazione? Opportunismi a parte, forse il timore che i tedeschi riuscissero a rovesciare le sorti del conflitto in corso, sicuramente la debolezza di cui soffriva il fronte antifascista, escluso per 20 anni dal sindacato, nel quale aspirava a tornare con un ruolo di rilievo, la volontà di opporsi all’asportazione dei macchinari messa in atto dai tedeschi. Ci fu forse anche chi si illuse che la socializzazione potesse segnare una svolta nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori d’opera, permettendo una maggiore giustizia sociale.
Al di là di ciò che poterono fare, anche per ragioni di tempo, gli eletti nelle commissioni di fabbrica a Terni, va sottolineato come quanto qui avvenuto sia significativo e non a caso abbia costituito un capitolo imbarazzante per una certa storiografia che ha preferito sorvolare in merito.Tornando, più in generale, al progetto sulla socializzazione elaborato durante la RSI, va detto che esso non sarebbe andato del tutto perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti. Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia, fin dal 17 aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini. Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di socializzazione delle imprese, dichiarò decaduti gli organi da questa creati, sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende attraverso «nuovi e democratici» consigli di gestione; condannò gli «obiettivi antinazionali» della socializzazione con cui il Fascismo aveva tentato di «aggiogare le masse lavoratrici dell’Italia occupata al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco»; riconobbe «l’alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell’Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa “socializzazione” fascista».
Intenzione del CLNAI era «assicurare, all’atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il potenziamento dell’attività produttiva, nello spirito di un’effettiva solidarietà nazionale». Il decreto abrogò la socializzazione affidando a nuovi consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la materia. Il decreto del CLNAI, accettato a malincuore dagli operai, non ricevette tuttavia l’approvazione degli angloamericani. Se il più importante sindacato, la comunista CGIL, il 23 settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di «diretta partecipazione delle maestranze alla gestione dell’azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione», l’atteggiamento ostile degli imprenditori non permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione vera e propria era esclusa. Nel novembre del 1947 fu decisa l’istituzione di una commissione speciale con il compito di elaborare la «Carta» dei consigli di gestione, ma non fu nemmeno eletta. Laddove istituiti, i consigli sopravvissero fino all’inizio degli anni Cinquanta, solo come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati. Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla fine del 1944 era stato stipulato un patto per la partecipazione diretta di operai, tecnici e impiegati alla gestione dell’impresa. Il 29 gennaio 1945, il leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, parlando di questo patto al congresso della CGIL, affermò che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti, dal momento che affermava «il principio che il progresso produttivo non si svolge come qualcosa di estraneo ai lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende». Il patto di Terni diventò, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e da applicare alle altre imprese italiane. Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo dopoguerra.
Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, deputato socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua città, proponendo un emendamento al 43° articolo della Costituzione e chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende, «per mezzo dei propri rappresentanti in un comitato paritetico con i rappresentanti dell’impresa». Poi però lo ritirò dichiarando di votare il testo della Commissione per non causare divisioni. Con la vittoria alleata e l’ingresso dell’Italia nell’area sotto l’egemonia statunitense era ormai prevalsa una linea politica neoliberista con cui si tornò alla situazione che il ventennio non era riuscito a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica. Il sindacato fu ricondotto nell’ambito dell’associazionismo «libero e volontario», con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia della classe imprenditoriale sia dello Stato. Il sogno di una confederazione unitaria del sindacalismo italiano era destinato a non realizzarsi mai più.
*Da Storia in Rete 105-106