Istrione di un calcio in via d’estinzione, era nato a Begec, in Serbia. Fu calciatore, legato per quasi tutta la carriera alla Vojvodina di Novi Sad ma arrivando a vestire anche la casacca della nazionale jugoslava. Già allora vestì, per poco tempo e con scarso successo, i colori del Doria: nel 1961, a 30 anni, fu ingaggiato dai blucerchiati. Due anni dopo diventa allenatore. E inizia a scrivere la storia di una leggenda che fa giri strani – Olanda, Spagna (dove vince due scudetti con il Real) – e poi ritorna in Italia: l’Ascoli, la Sampdoria, la Roma, il Napoli e il Perugia. Ma il suo nome è legato alla Samp elegante e talentuosa del duo Vialli-Mancini, dello zar Vierchowood, delle sgroppate di Attilio Lombardo e dell’estro di Pagliuca. Uno scudetto romantico nella stagione ’90-’91 e una finale di Coppa Campioni persa con il Barcellona, a Wembley, per quel siluro maledetto di Koeman.
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Ma il mito di Boskov si alimentò anche al di fuori del campo. Celebri le battute coniate come perle di un modo di vivere di chi non si prende troppo sul serio, di chi sa che il calcio va rispettato e onorato in quanto simbolo di altro da sé, non per elemosinare vittorie ma per raggiungere traguardi. Ma sempre con stile e dignità, senza cedere di un millimetro dinanzi al rispetto prima per se stessi e poi per gli altri. “Rigore è quando arbitro fischia”, “La partita finisce quando arbitro fischia”, “Squadra che vince non si cambia”, “Io penso che per segnare bisogna tirare in porta” o “Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0”: sono solo alcuni degli aforismi di un filosofo disincantato a cui era capitato di sedersi in panchina. Regalati con quella faccia pulita e buona di un signore del calcio che fu. E che manca a tanti, come le lapalissiane certezze di un maestro d’ironia e di stile partito per l’ultima trasferta in un cielo cerchiato di blu.
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@mariodefazio