Quale identità hanno i giovani che escono dalla scuola italiana? Questa: non sanno comunicare in inglese. Hanno ridotte competenze operative. Mostrano difficoltà a comprendere le dinamiche del mercato del lavoro. Inoltre, manifestano impedimenti economici a frequentare le università; appena meglio della sola Grecia. Questo ed altro nel recente Rapporto McKinsey, un’indagine sviluppata su otto paesi dell’Unione europea e presentata, a Bruxelles, in questi giorni. Il Rapporto testimonia che i giovani italiani spesso non sanno riversare sapere e competenze nei contesti aziendali. Di conseguenza le aziende si lamentano ribadendo le difficoltà di individuare dei buoni profili professionali all’interno della formazione italiana.
“Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dall’incapacità di trovare i lavoratori giusti…” Insomma, quei pochi posti di lavoro disponibili restano non occupati perché le aziende non trovano le opportune competenze nei giovani lavoratori. Nell’indagine Ue, questo disagio è da imputare al distacco cronico tra la formazione e le aziende. Ed ecco la nota dolente, “Il 72% degli educatori pensa che i ragazzi abbiano le attitudini di cui avranno bisogno alla fine della scuola; ma solo il 42% degli imprenditori concorda con questo.” E la cosa si fa grave quando si legge, “Solo il 41% dei datori di lavoro dice di comunicare regolarmente con i dirigenti delle scuole, e solo il 21% considera questa comunicazione efficace.”
Il Rapporto McKinsey rappresenta tout-court un’accusa al sistema scolastico nazionale. Un sistema che sa offrire, solo al 23% dei concorrenti ad un lavoro, la conoscenza della lingua inglese utile nei contesti lavorativi. Adesso questi argomenti consentono di esaminare criticamente una così netta rottura tra le scuole e le aziende. E diciamolo con chiarezza, ma le competenze trasmesse dalle scuole italiane sono standardizzate, replicate troppe volte, poco innovative. Poi, le realtà scolastiche locali non sono diversificate affatto; cioè le offerte formative molte volte sono identiche; nelle scuole tutti fanno la stessa cosa… Gli esiti dei nuovi indirizzi scolastici della Riforma Gelmini, scusate, ma sono stati monitorati? E stanno questi palesando qualche efficacia? Di sicuro la managerialità dei dirigenti o la creatività dei docenti è stata distrutta dalla macchina burocratica e dalla riduzione dei fondi finanziari. Anche per questo, negli istituti, non si intravede la possibilità concreta di fare ricerca o di individuare esperienze formative legate alle professionalità emergenti.
Una parziale risposta a questi affanni potrebbe essere raffigurata dal rafforzamento delle attività di orientamento al lavoro nelle scuole e nelle famiglie; e queste, purtroppo, continuano a scegliere, specialmente al Sud, i licei generalisti, ossia le scuole meno impegnate nella trasmissione di specifiche abilità tecniche spendibili nel mercato del lavoro. Non molti anni fa, chi lavorò alla diffusione del lavoro di M.Sacconi e M.Tiraboschi (‘Un futuro da precari’- Mondadori, 2006) era consapevole del fatto per cui i ragazzi restavano condizionati “…dalle scelte scolastiche sbagliate, dal rifiuto dei mestieri tradizionali, dalla mancanza di orientamento…” In sintonia con il RapportoMcKinsey, oggi,si aggiunge che i giovani rimangono influenzati, negativamente, dalla prevalenza della teoria sulla pratica; da molte discipline scolastiche da ri-progettare; e dalle abilità sì insegnate, tuttavia, scarsamente indirizzate verso il problem solving.
Così, in Europa, la formazione italiana offre un’immagine poco positiva. Per gli Stage non veramente utili. Per i piani di ‘Alternanza scuola-lavoro’ svolti in maniera approssimata. Per le scuole medie che male indirizzano gli studenti ‘spediti’ molto schematicamente verso il sistema dei licei, come afferma Stefano Molina della ‘Fondazione Agnelli’ (Corriere della Sera, 14 Gennaio). Mentre tutto il resto ci fa pensare ad un futuro…non proprio tranquillo.