Ci sono moltissime pagine della storia della nostra Nazione che non sappiamo raccontare, che non troviamo sui libri di scuola o che sono state colpevolmente dimenticate. Una di queste inizia a Trieste, sessanta anni fa, i primi giorni di Novembre del 1953. Ma prima dobbiamo fare un passo indietro, Trieste 1946.
Non bastavano le ferite lasciate dalla guerra appena conclusa, né la tragedia delle Foibe e degli esuli istriani e dalmati, la città giuliana venne strappata al territorio Italiano al termine del II° conflitto e fu dichiarata Territorio Neutro, divisa in due zone “A e B”: la prima sotto il controllo Alleato della British Army , la seconda sotto l’amministrazione militare jugoslava. Nel corso degli anni successivi ci furono vari tentativi sia da parte Italiana che da parte titina di ottenere l’intero territorio ma senza successo provocando così una situazione di stallo difficile da sbloccare.
La svolta ci fu nell’estate del 1953: quando il governo italiano schierò le sue truppe sul confine orientale, la risposta Titina non si fece attendere e i due eserciti furono ad un passo dalla guerra. Gli alleati cercarono di scongiurarla lavorando ad una spartizione del Territorio fra i due paesi ma complicarono le cose pubblicando la “Nota Bipartita”, una nota nella quale si impegnavano a cedere il territorio della Zona A all’Italia. Alla reazione Jugoslava, che stava preparando l’invasione di Trieste, gli Alleati interrompono l’applicazione della “Nota Bipartita” provocando le proteste da parte Italiana.
Il 3 Novembre 1953 in occasione del trentacinquesimo anniversario del ritorno di Trieste all’Italia (1918) l’allora primo cittadino Gianni Bartoli issò la bandiera italiana dal pennone del Municipio contravvenendo al divieto del Generale Thomas Winterton, governatore di Trieste, che al rifiuto del primo cittadino di rimuoverla fece intervenire i suoi ufficiali per toglierla e requisirla. Il giorno successivo si scatenarono le prime proteste: alla stazione ferroviaria della città si formò un corteo di mille persone, molte delle quali di ritorno dal Sacrario di Redipuglia, dove si era svolta l’annuale cerimonia di commemorazione delle vittime della “Grande Guerra”, che improvvisarono una manifestazione per l’italianità di Trieste.
La folla si ingrossò e un grande corteo arrivò in Piazza Unità e cercò di issare nuovamente il tricolore sul Municipio. Cortei e incidenti si svilupparono in varie zone della città. Il 5 riaprirono le scuole. Gli studenti entrarono subito in sciopero e formarono un corteo che arrivò fino in Piazza Sant’Antonio. Arrivò anche la polizia, che fu accolta a lanci di pietre. I poliziotti reagirono con idranti e manganelli, e picchiarono gli studenti che nel frattempo si erano rifugiati dentro la chiesa di Sant’Antonio. Il vescovo Santin stabilì per il pomeriggio la cerimonia di riconsacrazione della Chiesa: parteciparono migliaia di cittadini, e all’arrivo delle camionette della polizia nacquero nuovi incidenti. Un ufficiale inglese aprì il fuoco, e i poliziotti ne seguirono l’esempio: morirono Piero Addobbati e Antonio Zavadil, mentre decine di altri ragazzi furono feriti.
Il 6 novembre la città fu attraversata da una folla immensa, decisa ad attaccare tutti i simboli dell’occupazione inglese. La bandiera italiana fu issata sul Municipio e sul palazzo del Lloyd Triestino. I Triestini lanciarono bombe a mano sulla Prefettura. La polizia aprì nuovamente il fuoco ad altezza d’uomo. Quattro triestini (Francesco Paglia, Leonardo Manzi, Saverio Montano ed Erminio Bassa) caddero a terra. Quest’ultimo episodio costrinse le diplomazie a trovare una soluzione: undici mesi dopo il territorio venne spartito fra l’Italia e la Jugoslavia. Paglia, Manzi, Montano, Bassa, Zavadil e Addobbati erano uomini e sopratutto ragazzi di destra e di sinistra, ex partigiani ed ex repubblichini, caduti insieme perché Trieste tornasse Italiana.